testo di Cristina Parodi, foto di Fulvio Zubiani
Tatenda ha gli occhi neri e dolcissimi. È una bimba di tre anni, orfana dei genitori morti di Aids. Il suo nome in lingua africana significa “grazie”, come sembra dire il suo sguardo di fronte alle cure e all’affetto che riceve in un piccolo ma pulitissimo asilo di Harare, la capitale dello Zimbabwe.
Non è la prima volta che viaggio con il Cesvi, Ong che sostengo ormai da tanti anni. Con loro sono stata nel sud dell’India, per vedere come hanno ricostruito i villaggi dei pescatori distrutti dallo tsunami, in Mozambico per raccontare la lotta contro la fame e la malnutrizione, e in Afghanistan dove si impegnano a migliorare la condizione delle donne dando loro la possibilità di imparare un mestiere. Ora la missione è visitare i progetti della ex Rodesia, un tempo colonia britannica talmente ricca da essere chiamata la Svizzera dell’Africa, e oggi soffocata dalla crisi economica e dall’Aids. Ci sono volute diciannove ore di viaggio, due scali e lunghe ore di attesa prima di essere accolta all’aeroporto di Harare da un blackout generale, ma anche dal primo dei meravigliosi tramonti che tingono di arancio il cielo africano.
L’asilo è il primo posto che visitiamo: accoglie fino a 60 bambini, tutti con situazioni di abusi, povertà e disagi. Oltre a Tatenda mi colpisce Takunda, un maschietto vivace di quattro anni che porta lo stesso nome del primo bambino nato sano da una madre sieropositiva grazie a un progetto del Cesvi in questo Paese e diventato il simbolo del successo della cooperazione. Ma la lotta contro questa malattia è tutt’altro che finita. Cinque delle bambine che vediamo cantare allegre filastrocche hanno contratto il virus. Ora sono seguite dall’ospedale e accudite dall’asilo, ma dopo i sei anni cosa accadrà loro? Ecco perché il Cesvi ha fondato ormai nove anni fa la Casa del Sorriso, un centro di accoglienza per adolescenti e ragazze madri che durante il giorno possono venire a lavarsi, mangiare e ricevere cure mediche. Nel 2004 erano diecimila i ragazzi di strada, oggi solo 700. E già questo è un buon segno.
A vederli i ragazzi di colore sembrano giovani cloni di rapper americani. Con me scherzano e ridono, felici di questa attenzione, ma hanno storie drammatiche alle spalle. Brian ha 14 anni e da cinque vive in strada, suo padre era ricco ma lo ha cacciato dopo essersi risposato. Talent ha 22 anni e vuole fare il ballerino, ora sbarca il lunario vendendo cd agli angoli delle strade perché deve mantenere tre figli. Vedo una ragazza giovane, sembra una bambina che culla la sua bambola, invece è Marute, 16 anni, che stringe al seno il bimbo avuto due settimane fa. Il padre del bambino è in prigione, lei non ha i genitori, dorme in un ostello e passa la giornata qui. Come lei altre due ragazze madri mi raccontano le loro storie: Lucia ha vent’anni anni e una bimba talmente bella che sembra finta. Non riesco a non coccolarla. La tengo in braccio e le faccio scarabocchiare il mio taccuino. Anche lei è stata raccolta dalla strada dove andava a prostituirsi. Di che cosa hai paura, le chiedo: della polizia. Qual è il tuo sogno? Imparare a fare i paralumi e venderli per guadagnarmi da vivere. Per ognuno di loro, in questo posto, c’è un sorriso e una speranza di riscatto.
Il giorno seguente lasciamo la città per spostarci a sud e arrivare a Bulawayo. Il paesaggio è magnifico, alberi immensi come i baobab, jacarande dai fiori coloratissimi, orizzonti sconfinati. La mattina dopo ci addentriamo nelle campagne per raggiungere la zona di Shase, dove 60 ettari di terra sono stati trasformati in un’azienda agricola che produrrà arance. La comunità di Maramani è una delle più povere del Paese. Siamo al confine con il Sudafrica, dove la gente vive ancora nelle capanne senza acqua e elettricità. Andrea Ferrari-Bravo è il responsabile di questo progetto Cesvi, che è sostenuto dalla Commissione Europea e dal Comune di Milano. Mi spiega che sono coinvolte 272 famiglie e quando arriviamo alcuni di loro stanno interrando le ultime piantine. Come spesso succede in Africa sono le donne le più affidabili e precise nel lavoro dei campi, anche se magari zappano con il bambino piccolo sulle spalle. Takalani vuole venirci a salutare a tutti i costi. Lei ha un figlio ormai grande e altri quattro che sono morti. Crede che questo progetto porterà prosperità ai villaggi. Ha 42 anni ma sembra anziana, qui l’aspettativa di vita è di 50 anni appena. È bello veder collaborare le persone del Cesvi con i locali. C’è rispetto reciproco, lealtà, fiducia in un obiettivo comune: ognuno insegna e impara qualcosa dall’altro. Questo è il senso e il valore della cooperazione.
Che Paese bellissimo lo Zimbabwe, penso ritornando a casa e portandomi dentro le immagini e le storie che mi hanno colpito. Sapete qual è la cosa più emozionante? Salutare i bambini. Io l’ho fatto in continuazione. E sempre li ho visti illuminarsi in un sorriso, come se fare “ciao” con la manina fosse la cosa più bella del mondo. Noi possiamo aiutarli in tanti modi, e abbiamo il dovere di farlo, ma quei bambini hanno il potere di insegnarci la gioia di vivere.
Fai come Cristina Parodi!