Lavorare e vivere nel Kurdistan Iracheno

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Iraq Kurdistan ph. Petr Stefan PIN

Giulia Cappellazzi ha 34 anni e diverse esperienze professionali in Australia, Palestina, Libia e Tunisia alle spalle, tutte accumunate dal desiderio di promuovere e proteggere i diritti delle minoranze. In Iraq, dove vive da tre anni, lavora oggi come Coordinatrice Internazionale degli Interventi Educativi in un progetto finanziato dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo.

Vivi in Iraq da diversi anni. Com’è la situazione del Paese, e come l’hai vista cambiare nel tempo?

Ho scelto di venire in Iraq perché l’ho sempre trovato un Paese affascinante. È la culla dell’umanità, ci tenevo ad essere presente nella sua fase di transizione post-conflitto, perché è un momento ricco di sfide e di opportunità. Ci sono tantissime culture e storie, e un enorme potenziale d’intervento. I problemi sono molti, ma le persone sono accoglienti e hanno voglia di rimettersi in moto. Se ci si approccia con rispetto, si aprono porte su vissuti più intimi che ti insegnano a leggere il contesto e a conoscere tutte le regole tribali non scritte, che sono anche più importanti di quelle formali se vuoi interagire davvero con le persone.

Com’è il contesto del Governatorato di Ninewa, dove stiamo lavorando in coordinamento con l’ONG Ceca People in Need?

Gli effetti del conflitto, bombardamenti, autobombe e via dicendo, sono ancora visibili: moltissimi edifici sono distrutti, le strade sono disconnesse. Rispetto però a quando le ho viste per la prima volta, subito dopo la liberazione, le città fantasma si stanno ripopolando, piccoli business o ristoranti stanno riaprendo, le case vengono ricostruite.

Il progetto si focalizza sul settore educativo. Perché si è deciso di partire proprio dall’educazione?

L’intervento nel settore educativo in Iraq è considerato una priorità assoluta non solo dalla comunità internazionale, ma soprattutto da quella locale: tutte le persone con cui ho parlato – donne, leader religiosi, adulti e gli stessi bambini, fuori e dentro i campi sfollati – ci chiedevano di ristabilire il sistema scolastico. Durante l’occupazione di DAESH (acrononimo arabo equivalente a ISIS), durata all’incirca 3 anni, i bambini sfollati non potevano andare a scuola, mentre quelli rimasti sono stati costretti a seguire curriculum scolastici basati su uno stravolgimento dei precetti religiosi e caratterizzati da un alto grado di violenza finalizzata a instillare nelle menti i semi dell’estremismo islamico. La scuola è fondamentale per ristabilire una percezione di normalità e sopratutto per dare ai bambini, e ai loro genitori, un luogo sicuro che li possa tenere lontani dalla strada e da pericoli quali il reclutamento da parte delle milizie, lo sfruttamento sessuale e il lavoro minorile.

Quali sono gli interventi prioritari da realizzare?

La crisi economica del Paese ha una forte ripercussione sulla capacità del governo di coprire i costi legati all’insegnamento e all’educazione. Nel Governatorato di Ninewa la scuola è in una condizione estremamente precaria. Gli insegnanti non sempre hanno un salario garantito e le infrastrutture avrebbero bisogno di un grande intervento di ristrutturazione: l’acqua non è potabile, mancano degli infissi che trattengano il calore durante il rigido inverno e sistemi di areazione che impediscano alle aule di diventare un forno durante l’estate, quando si toccano regolarmente i 50°.

Quali sono gli interventi previsti dal progetto?

Il progetto è partito da qualche mese, ma abbiamo subìto dei rallentamenti a causa delle piogge e di una burocrazia estenuante; solo la settimana scorsa il Dipartimento dell’Educazione ci ha dato il via libera formale per iniziare le attività. Queste ruoteranno intorno alle otto scuole che riabiliteremo e che sono appena state identificate. Oltre agli interventi strutturali, realizzeremo incontri di formazione e di tutoraggio per presidi e insegnanti con l’obiettivo di migliorare l’offerta formativa. Promuoveremo campagne di informazione per coinvolgere le comunità e faciliteremo la creazione di incontri tra genitori, personale scolastico e rappresentanti della comunità che monitoreranno e discuteranno l’andamento delle attività scolastiche.

Credo che il punto di forza del progetto sia la presenza di elementi di coesione sociale e costruzione della pace inseriti all’interno di attività ricreative in cui vengono coinvolti alunni, insegnanti e membri della comunità. Non si tratta di creare esperti di risoluzione dei conflitti, ma di far comprendere alle tante minoranze che compongono il Paese, che lo rendono unico ma al contempo lo mantengono diviso, che sono tutte parte di una grande comunità.

Essere donna straniera in un Paese appena uscito da un’occupazione islamica estremista ha avuto delle ricadute sul tuo lavoro?

Che tu sia uomo o donna, nel momento in cui decidi di lavorare sul campo in Iraq accetti di correre dei rischi, perché la situazione è imprevedibile e instabile. Nell’interagire con persone locali mi pongo in modo rispettoso ma fermo, alla pari. A volte sono stata percepita in modo diverso rispetto ai colleghi maschi, ma questo paradossalmente mi ha permesso di avere accesso a informazioni più sensibili e confidenziali.

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“Fornire un’educazione di qualità, equa ed inclusiva, e opportunità di apprendimento per tutti” è l’obiettivo che si prefissa l’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile. Ad oggi, però, sono ancora 303 i milioni di bambini e adolescenti che non hanno l’opportunità di accedere a servizi scolastici primari o di completare il loro percorso educativo. Povertà, discriminazione, conflitti armati e fenomeni migratori sono le cause principali dell’abbandono scolastico giovanile. 1 bambino su 3 che non frequenta la scuola vive in contesti di emergenza (dati Unicef). A questi bambini è dedicata la Giornata internazionale dell’Educazione, istituita a dicembre 2018 dalle Nazioni Unite per celebrare l’importanza del ruolo dell’educazione nella creazione di una società sostenibile e resiliente.

Foto di copertina: Petr Stefan, People in Need