di Loris Palentini, rappresentante Cesvi in Zimbabwe
Poco, o tanto, abbiamo tutti sentito parlare del bracconaggio. Termine vago, potremmo dire, che spazia dai nostri nonni, che cacciavano e pescavano con trappole rudimentali fatte spesso di giunchi intrecciati, ai moderni bracconieri dotati di sistemi di rilevamento satellitare e apparecchi per intercettare le comunicazioni radio di rangers e personale impegnato nella tutela di parchi e riserve.
Per molti di noi la parola bracconaggio è stata per decenni, e in buona parte lo è ancora, legata soprattutto al mercato dell’avorio clandestino. Ma se dovessimo sfogliare qualche documento o semplicemente cercare in internet, ci renderemmo conto di quante e quali specie siano non solo a rischio d’estinzione, ma anche tra le più ambite sul mercato clandestino. Uccelli e serpenti esotici, scimmie e primati di ogni genere, felini e grandi mammiferi sono tra le specie più a rischio, per le ragioni più disparate. Uccelli e serpenti per gli amanti dell’esotico disposti a pagare migliaia di euro per un’Ara amazzonico o un pitone del Borneo; ricchi asiatici disposti a mangiare il cervello di un orangutan ancora vivo e immobilizzato in una gabbia di bambù trasportata direttamente in tavola; amanti dell’avorio o dei trofei di caccia da esporre in casa appannaggio di invidiosi amici e conoscenti; fino alla follia, prevalentemente asiatica, di impiegare parti di animale nella medicina tradizionale spalancando le porte all’estinzione della tigre e all’uso del corno di rinoceronte come afrodisiaco.
Nella mia ingenuità, m’ero convinto che il fenomeno, almeno quello su larga scala, fosse in declino. È stato quindi con enorme sorpresa che ho scoperto quanto sia tutt’ora – e sempre più – un fenomeno di primo piano. Nel 2002 in Tanzania si contavano all’incirca 144.000 elefanti, mentre oggi si raggiungono a fatica i 50.000. Centomila elefanti in meno in un solo Paese in poco più di un decennio? Questa è la vera follia dell’uomo. Qualcuno, recentemente, mi ricordava come siamo l’unico animale che si fa la guerra con l’intento di uccidere, ma qual è la colpa di questi animali, alle volte quasi mitologici? Per quale forma di malattia dobbiamo essere così ossessionati da permetterci il lusso di estinguere popolazioni, intere specie a volte, pur di avere e di apparire? Chi siamo noi per arrogarci questo diritto e privilegio? Quando penso alle mie figlie, che vivendo e viaggiando con me hanno la fortuna di vedere e conoscere alcune di queste specie a rischio, mi domando se i loro figli, se i miei nipoti, avranno mai questa fortuna. Non parlo con il rammarico di un vecchio nonno che guardandosi indietro ripercorre le tappe della sua vita, ma piuttosto come un giovane amante dell’ambiente, affascinato dalla natura e dai suoi doni, che si rende conto che alcune esperienze e cose che ha la fortuna di vedere forse un giorno non saranno più viste da nessuno.
Con Cesvi in Zimbabwe supportiamo un’organizzazione locale, The Tashinga Initiative (TTI), che lavora dall’interno per aiutare a ridurre il fenomeno del bracconaggio nella zona al confine con Zambia e Mozambico, nel nord del Paese. E proprio da lì sono tornato pochi giorni fa dopo una visita per conoscere le realtà in cui vivono i ranger della stazione di Tashinga, il quartier generale dei ranger del parco di Matusadona.
Quando arriviamo fa caldo, molto caldo. Il termometro segna 29.4°C alle 5.20 del mattino dopodiché semplicemente non lo guardiamo più. Perché farsi del male?!
Il lavoro è duro, i ranger si preparano per il pattugliamento in foresta, che dura all’incirca una settimana. Viaggiano quindi con i viveri per tutto il tempo. Hanno seguito un corso di sopravvivenza per essere in grado di affrontare la foresta, ma tutti sperano di non averne bisogno. Incontro alcuni di loro, chiedo da quanto tempo stazionino alla base di Tashinga: scopro che alcuni vivono lì da sempre. Uno di loro mi dice che è arrivato a Tashinga 32 anni fa per un periodo di prova e non s’è più mosso. La base ospita anche un piccolo villaggio dove i ranger vivono con le loro famiglie: c’è una scuola per i loro figli e ora, grazie al progetto supportato da Cesvi, una pompa solare che garantisce la disponibilità d’acqua a tutto il complesso, permettendo alle famiglie di coltivare piccoli orti e di essere autosufficienti. L’acqua rappresenta la vita e in questo caso nel vero senso del termine, dato che l’alternativa è scendere al lago con il rischio di essere mangiati dai tanti coccodrilli che popolano il lago Kariba.
E così chiacchieriamo e mi sento dire che quello di cui hanno bisogno non sono migliori condizioni di vita o stipendi più adeguati, ma un sistema radio più efficace per essere sempre in contatto con le altre 4 stazioni all’interno del parco e con i ranger di pattuglia. Uno dei ripetitori è stato infatti vandalizzato a gennaio dai bracconieri che cercavano di bloccare le comunicazioni tra i ranger guadagnandosi un corridoio di fuga. Ebbene sì, ancora loro, i bracconieri.
Matusadona, il parco sul lago Kariba di cui Tashinga rappresenta la centrale operativa dei ranger, soffre, come ogni altro parco in Africa, dell’eterno problema del bracconaggio. Lynne, la responsabile di TTI che lavora nel parco dal 1976, mi racconta: Quando vivevo a Tashinga era normale incontrare rinoceronti lungo la strada e fermarsi a osservarli per ore senza che ne fossero minimamente disturbati. Ora la popolazione di rinoceronti del parco pare sia di 4 esemplari, ma in molti pensano sia addirittura sovrastimata perché da tempo non ci sono avvistamenti certi.
Ci spostiamo verso la zona del parco dove ci accampiamo per la notte, ed eccoci circondati da elefanti maschi che esibiscono maestosamente zanne di oltre un metro. Un’emozione unica per me, ma altrettanto strana. Ci ritroviamo a discuterne con Lynne che afferma: Non ho mai visto, in quasi quarant’anni di frequentazione del parco, tanti elefanti così vicini alle tende. Forse è la paura che li fa avvicinare a un’area percepita, in qualche modo, come sicura. La sensazione è incredibile. Lynne, la cui tenda è piantata sotto un albero di mango selvatico, dorme per tre notti con un enorme maschio d’elefante a 10 cm da lei, mentre io passo metà della notte in ammirazione, guardandoli muoversi attorno al campo alla luce della luna piena.
Passano i giorni della missione sul campo e si definisce sempre più la consapevolezza di dover fare qualcosa in più. Non siamo soli, con noi ci sono altre organizzazioni, la direzione del parco e i proprietari dei lodge nel parco, quanto mai interessati non solo a far crescere il numero di turisti, ma anche a contribuire ad una causa che non può che essere vinta tutti assieme. C’è anche una giovane ricercatrice che studia i leoni e la loro interazione con le comunità limitrofe. C’è un professionista interessato a creare una scuola per documentaristi ambientali e ci siamo noi, Cesvi e The Tashinga Initiative. Una consapevolezza unica: la necessità di fare qualcosa, trovando la giusta chiave di lettura per unire tutti gli attori in una battaglia comune. La comunità dev’essere il grimaldello con il quale scardinare le maglie di un sistema illecito che ormai parte da Al Shabab somalo per finire sul mercato asiatico, passando per i disperati che, per una manciata di dollari, sono disposti a rischiare la vita entrando nel parco o fornendo ai bracconieri le informazioni necessarie ad evitare i controlli.
Ed ecco una meravigliosa notizia: mentre siamo al parco, arriva via radio il messaggio che il ripetitore rubato è stato ritrovato. Andrà riportato in città per essere testato e ricalibrato, ma tutti speriamo possa essere riparato e installato quanto prima perché un ranger senza radio, in questa foresta, è un ranger inutile. E questo i bracconieri lo sanno.
Il racconto potrebbe continuare all’infinito. Mi ritrovo spesso a dire, parlando con amici e colleghi, che nel 21° secolo queste cose non hanno più motivo d’esistere ma allora perché non è così?
I perché sono sempre tanti. La povertà economica e culturale, la visione a breve termine di qualcuno che deve pensare al sostentamento della propria famiglia prima che alla conservazione della specie, l’avidità dei mediatori internazionali, la corruzione dei governi, la follia di chi è disposto a pagare a peso d’oro polvere di corno di rinoceronte.
Ma dall’altra parte c’è e ci sarà sempre qualcuno disposto a dire no. Il mostro non è solo chi preme il grilletto per abbattere una mamma di rinoceronte con un piccolo al suo fianco, lasciandolo poi in pasto ai leoni. Il mostro siamo tutti noi, sono io che per ignoranza pensavo che il bracconaggio fosse in calo, perché almeno una volta nella vita abbiamo comprato qualcosa, abbiamo accettato qualcosa, abbiamo chiuso gli occhi davanti a qualcosa che avremmo, nel nostro piccolo, potuto fermare.
A tutti noi è rivolto questo appello, perché tutti possiamo fare qualcosa. Non possiamo più, nel mondo globalizzato, nasconderci dietro agli altri, dietro la distanza, dietro i vari ma io cosa c’entro. Aiutiamo i nostri figli a capire quanto sia importante salvare gli ultimi sprazzi di questo mondo e, cosa ancora più importante, e spesso più difficile, aiutiamo i nostri coetanei, i nostri genitori, a capire che c’è posto per tutti in questa battaglia.