di Giangi Milesi, past president Cesvi
Le interviste impossibili sono un buon esercizio: ci allenano alla narrazione e ci obbligano, attraverso l’immaginazione, a tenere vivi gli insegnamenti dei maestri. Nel 34° compleanno del Cesvi, ho pensato di intervistare il socio che, più di tutti, ha lasciato un’impronta profonda e influito sull’identità della nostra organizzazione: il maestro per definizione, Ettore Tibaldi, morto il 24 agosto 2008. Nato a Bergamo 65 anni prima, fu scienziato, divulgatore e per oltre trent’anni docente di zoologia all’Università di Milano. Quando sono diventato Presidente, l’ho voluto al mio fianco. Ettore è stato Vicepresidente fino a quando il cancro gliel’ha permesso.
Più che un’intervista, ne è venuta fuori una chiacchierata da bar, come se fossimo ancora una volta a colazione in Piazzetta.
Ettore, quanto mi sei mancato!
Durante quell’ultimo Consiglio di Amministrazione in cui sei intervenuto in conferenza telefonica, a un certo punto, sfinito, con un fil di voce, ci hai salutati. Era l’ultima volta e ci hai abbandonati con una domanda: «Come abbiamo fatto a diventare così bravi?».
Ci prendevi in giro con il tuo solito sarcasmo? Ci invitavi a non prenderci troppo sul serio? A non perdere il senso dell’ironia che hai sempre messo nel tuo lavoro? Oppure, ci incoraggiavi a proseguire senza di te? A non abbandonare i tuoi insegnamenti? A non smettere di studiare e a interrogarci?
«Bentrovato caro Giangi. Vedo che hai imparato la lezione. Io, da vivo, scrissi il mio necrologio, anzi il necriculum, che ti mandai per tempo e che tu pubblicasti titolandolo “auto-coccodrillo” di Ettore Tibaldi.
Oggi tu mi intervisti. Da morto.
Bene. Mi fa anche piacere vedere che hai ritagliato dalle mie lettere e appeso nel tuo ufficio la sequenza dei miei disegni del pesciolino mangiato vivo dal gabbiano: sì, era un modo per raccontarti, a modo mio, la progressione del tumore che mi stava divorando… Sai che sono sempre stato un po’ pesciolino-centrico: il primo processo che celebrai allo “sviluppo insostenibile” fu il processo al pesce, al mercato ittico di Mestre. Ricorderai anche che, oltre ad “animali senza frontiere”, volevo fondare il movimento dei pesciolini rossi…
Certo che lo ricordo: nel tuo libro per Feltrinelli (Uomini e bestie, 1998), hai scritto che più di mezzo milione di acquari nelle case degli italiani fanno pensare che i pesci «non siano affatto muti e che, piuttosto, possano raccontare delle storie. Per poter comunicare con loro è necessaria … la contemplazione … molto utile per ritrovare o mantenere la tranquillità, negli adulti e nei bambini». Mi hai sempre divertito con i tuoi aforismi, ma qui passano gli anni, passano i decenni, senza che riusciamo a fermare la distruzione della biodiversità. Anzi, la devastazione si è allargata alla cultura. Proprio tu scrivesti: «Le spinte all’abolizione delle differenze, e delle diversità, sono potenti… fortissime le tendenze all’omologazione, alla falsificazione, alla produzione di non-luoghi un poco ovunque… molto simili l’uno all’altro dovunque si vada». Era il 2006 e “Gli alberi fanno piovere” era il titolo del libro di educazione ambientale edito dal Cesvi. Anche in quell’occasione fosti purtroppo visionario: nei Centri sviluppati della biosfera (come li chiami tu), la distruzione della biodiversità avanza e si manifesta anche sotto forma di regressione culturale: invece di studiare e approfondire, come ci hai sempre raccomandato, si resta alla superficie dei problemi; si banalizza la realtà; le percezioni sostituiscono la ricerca; gli slogan al posto delle soluzioni; le urla coprono il confronto…
«Giangi, è vero, ma non guardare il mondo con la scala della tua vita. Le ere geologiche si misurano in milioni di anni. I periodi storici in migliaia. E la secolare storia dell’umanità non è un processo lineare, ma una sequenza sconcertante di civiltà che sorgono e periscono. La nostra storia si muove per cicli e “ri-cicli”. Guarda gli avvenimenti attraverso questi occhiali».
Mi stai annunciando che per il genere umano andrà male? Che finiremo come i poveri dinosauri? Almeno loro si sono estinti a causa di un gigantesco meteorite… ma noi che possiamo misurare la riduzione della biodiversità e l’allargamento del buco dell’ozono, saremo così pazzi da commettere un auto-genocidio?
«Vedi, dopo 50 anni stai ancora con Capanna: parli senza aver studiato. Zygmund Bauman ha detto che il futuro dell’umanità: “…con il livello attuale di reciproca interdipendenza, dipende dalla capacità di collaborare di tutti i popoli che abitano il pianeta. E’ una questione di vita o di morte”. E comunque il futuro non si predice. Storia e preistoria si possono scrivere solo retrospettivamente. Ti sto invitando a non guardare i fenomeni con lo stato d’animo esausto di europeo. Su, forza! un po’ di vitalità. Piuttosto torna in Africa con Claudio Bisio, che ha fatto bene a te e al Cesvi.
Capisco la tua inquietudine quando senti al TG il Presidente degli Stati Uniti che declama il cibo americano: hamburger e pizza! Per favore, spediscigli il mio libro “Cibo d’Africa”. Chissà se lo legge? Capirà che l’Africa non è il continente solo della fame, ma una grande miniera di alimenti e ricette che verranno buone, quando saremo in 9 miliardi? Bisognerà correggere le diete alimentari di tutti noi, a cominciare da quella demenziale degli americani.
Ma sai perché alla fine non si sono fatti la guerra?»
Cosa? Chi?
«Trump e Kim Jong-il? Non è merito del saggio Presidente della Corea del Sud, ma dei ciuffi! Donald e Kim hanno lo stesso parrucchiere: è il Cracco dell’haute couture, lavora per Gucci, si ispira a Farrah Fawcett e si è specializzato nel maxi-ciuffo-iper-voluminoso».
E io sto a sentirti!
«Guarda che è scritto su Vanity Fair e tu che ti occupi di comunicazione dovresti leggerlo… Ad ogni modo, ti racconto di un viaggio: nel 1983 ho visitato il Senegal durante una spaventosa siccità che chiudeva un ciclo decennale di gravi difficoltà. Ho cercato da Dakar a Saint Louis e poi di là nel Ferlo, una pianura arida dell’interno, le tracce di misteriosi e costosi aiuti alimentari (carne e minestrone liofilizzati) che erano stati forniti dalla cooperazione italiana al popolo senegalese. Invano. Ho trovato, invece, le tracce evidenti del disastro: la monocoltura industriale dell’arachide aveva impoverito il suolo, che poi era stato distrutto da un’invincibile aridità. Era fin da allora chiaro che nelle zone tropicali l’agricoltura industriale non può sussistere. Il modo con cui è stata inventata e indirizzata nelle zone temperate è troppo pesante e non può coesistere con i metodi più sostenibili dell’agricoltura tradizionale. Questa ha bisogno, urgente, d’innovazione, ma non certo nella direzione fino ad allora prospettata».
Si, me l’ha ricordata il sociologo Renato Novelli questa tua lunga analisi pubblicata da Micromega nel 2004. Renato scrisse che in quell’articolo avevi presagito la crisi alimentare mondiale con sei anni di anticipo. E forse ho capito qualcosa anch’io: quando ci vantiamo di non regalare all’affamato il tuo amato pesciolino, ma di insegnargli a pescarlo diciamo una sciocchezza?
«In realtà il proverbio cinese recita: “Dai un pesce a un uomo e lo nutrirai per un giorno. Insegnagli a pescare e lo nutrirai per tutta la vita”. Era Don Bosco che lo storpiava un po’ come hai fatto tu. Ma sai quanti bambini poveri Don Bosco ha tenuto lontano dalle galere? Con le sue scuole professionali li integrava nelle tipografie, nelle falegnamerie… Con l’istruzione. Però fai bene a mettere in discussione l’uso unilaterale del verbo “insegnare” nel senso di mettersi in cattedra. Ho sempre speso tante energie per rendere coinvolgenti le mie lezioni… Per non parlare del nostro lavoro umanitario: senza “partecipazione” dei beneficiari i nostri interventi sono destinati all’insuccesso. Se in generale chi insegna non deve mai smettere di ascoltare e imparare, nella complessità attuale, è ancor più necessario riconoscere e valorizzare le diversità: sono una risorsa preziosa e un motore potente per l’innovazione. Per questo nelle imprese oggi si punta sulla “fertilizzazione incrociata”.
Sul mettersi in cattedra, Bauman ci ha “insegnato” a essere “aperti”, ad assumere “nello stesso tempo il ruolo di insegnante e discepolo. Presumendo che gli altri possano avere acquisito esperienze, tratto conclusioni, interpretato la realtà che possono arricchire il nostro sapere.”
E sul tema del sapere e della cosiddetta verità, sempre Bauman, difendendo l’opera del giornalista-narratore Ryszard Kapuściński, sostenne che “il mondo è ricco di significati, che invece di una verità assoluta esiste un brulicare di verità relative che si contraddicono l’un l’altra. E che l’unica certezza è la saggezza dell’incertezza”. Voglio anche ricordarti, caro Giangi, quello che Bruno Munari spiegò proprio a te a proposito di chi vive di solide certezze: “…tutto cambia continuamente. Anche questa è un’antica regola cinese: “L’unica costante della realtà la mutazione”. Quindi se noi consideriamo la mutazione, siamo nella realtà. Se noi la fermiamo, siamo nell’astrazione”».
Ora manca di citare solo la grande orientalista Enrica Collotti Pischel e abbiamo scomodato tutto il firmamento del Cesvi. Ettore, sai che nel 1992 intervistai Enrica sull’immigrazione? Lei concluse ridendo: “dobbiamo mescolarci perché i bastardi sono i migliori…”
Esatto. Tutte queste citazioni, sono proposizioni di speranza. Bisogna avere pazienza e tenacia. Pensa allo sviluppo sostenibile: è dagli anni Ottanta che ne parliamo, ma ci sono voluti gli inglesi – Dio salvi la regina! – per darne, nel 1998, una definizione divulgativa ma precisa: “La sostenibilità è un concetto molto semplice. Significa garantire una migliore qualità della vita per tutti, nel presente e per le generazioni future”. In tre dimensioni inscindibili: Ambiente, Economia e Società. Questi concetti sono ora universali grazie all’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile (SDGs), adottata dalle Nazioni Unite nel 2015, preceduta dagli Obiettivi del Millennio (MDGs dal 2000 al 2015). Oggi tu sei frustrato: ti vantavi che le ONG godessero dello stesso grado di fiducia del Pontefice e invece, proprio i politici (che stanno in fondo alla scala della fiducia) hanno smontato, in poco tempo, buona parte di quella enorme reputazione. Lo hanno fatto con una serie di notizie, rivelatesi poi false, sui rapporti fra ONG e scafisti.
Ma se ci pensi, nel frattempo si è anche dissolta quella letteratura che demonizzava la cooperazione. Come lo spieghi? MDGs e SDGs sono obiettivi con indicatori misurabili. Numeri che dimostrano che il mondo va meglio in tutti i campi! Certo, le “percezioni” ci dicono il contrario. E in questo fai bene a coinvolgere nella comunicazione del Cesvi personalità di grande notorietà e reputazione come Bisio, capace di raccontare al grande pubblico i risultati concreti del nostro lavoro».
Vorrei ancora parlare di Burkina Faso, dove Ettore, ripetutamente, mi invitò per visitare i suoi progetti – avviati nel 1990 e finanziati dalla Coop – per aiutare i contadini a fermare l’avanzata del deserto! Non averlo accompagnato è il mio grande rimpianto. Ma mentre Ettore parla, la sua figura si dissolve e simultaneamente si materializza la certezza di non riuscire a rappresentarlo nella sua perspicacia e simpatia. Perciò rinuncio al ruolo di auto-intervistato e concludo affidandomi a qualche passo del libro di Claudio Cadei, “Un giardino al confine del deserto”, Terre di Mezzo:
Giunta a Napoli la delegazione del piccolo villaggio burkinabé si rende conto dell’importanza dell’evento. In quell’ottobre 2003 il progetto di salvaguardia della vegetazione locale dell’Unione dei villaggi di Tanlili, grazie agli sforzi per preservare in vita uno degli ecosistemi più fragili del mondo, viene premiato di fronte a un pubblico internazionale fatto di esperti, giornalisti, curiosi e colleghi contadini.
In Italia per ritirare il Premio Solw Food per la Biodiversità, di cui Ettore è stato l’ispiratore e dal quale nascerà, l’anno successivo, il salone Terra Madre, li attende una cerimonia piuttosto diversa da quelle a cui i nostri delegati sono abituati del Burkina Faso rurale.
In quell’istante, improvvisamente, le distanze si sgretolano e il senso del percorso condiviso sembra lì, nitido ed evidente sotto il cielo autunnale di Napoli. Anche gli anni, già tredici allora, sembrano riassumersi in un minuto, sufficiente per un contadino a raccontare un’impresa che all’improvviso lo ha reso famoso: «Ci siamo messi insieme e abbiamo cominciato a piantare gli alberi sulle colline e coltivare i nostri campi per salvarlo dal deserto”, dice al microfono il presidente Hamidou.
Hamidou, l’uomo che piantava gli alberi! Il corto-circuito fa un botto nella mia testa. Quante volte Ettore aveva fatto il nome di Hamidou? E “L’uomo che piantava gli alberi” non è il titolo del libro di Jean Giono, che Susanna, mia moglie, mi regalò, alla fine del secolo scorso? A mia volta io lo regalai ad amici e colleghi come “libro della speranza”. Racconta la storia vera di un pastore francese che, a cavallo delle due guerre, mentre pascolava il suo gregge, ha piantato centinaia di migliaia di ghiande. Così, semplicemente. Il bosco che ne è nato, crescendo, ha placato il vento, portato l’acqua e fatto rinascere la vita per un’intera comunità dove c’era solo il deserto.
Ma come è scritto in “Un giardino al confine del deserto”, Ettore ha fatto qualcosa di ancora più grande:
…è riuscito a connettere l’Africa subsahariana rurale a un contesto italiano di fine millennio che sembrava impegnato a rinnegare le proprie radici contadine, impostando uno scambio di saperi per una volta non unilaterale. Uno degli insegnamenti di Ettore Tibaldi è che la capacità di sviluppare un’agricoltura sostenibile e rispettosa dell’ambiente laggiù, ai margini del deserto, può essere una lezione importante anche per quelle civiltà che si considerano più avanzate delle altre.