Tratto dall’intervento al Marketing Club di Parma, 14/02/2015
Aggiungerei alle definizioni che ho ascoltato da Giuseppe Morici e dagli altri relatori che il marketing è la disciplina delle contaminazioni. Renato Gaeta ha fatto bene perciò a inserire in questo confronto una testimonianza dal non profit, perché una delle contaminazioni di cui farci carico è quella fra relazioni economiche e relazioni di dono. Lo ha raccomandato l’enciclica papale Caritas in Veritate; lo intendono gli economisti quando denunciano che il PIL non basta a misurare la ricchezza collettiva; lo chiedono persino i liberisti sostenendo che senza fiducia, senza capitale sociale o relazionale l’economia non funziona.
Il Cesvi opera attraverso il dono, ma il non profit non è il depositario di queste relazioni che sono alla base del funzionamento di tutta la società; pensiamo alla famiglia o alle stesse imprese. Non dobbiamo considerare solo il dono del denaro, del tempo (il volontariato), dei propri organi, del proprio sangue, di prodotti e servizi… Oggi il dono più potente – almeno nell’esperienza del Cesvi – è quello della conoscenza, non il building, ma la valorizzazione del genius loci moltiplicato dalla cooperazione e dalla contaminazione coi saperi globali.
Pensiamo a una rete di conoscenze “donate” come Wikipedia.
Fra le discipline manageriali di cui Cesvi ha fatto tesoro, la prima è stata proprio il marketing e l’advertising a partire dal 1990. Prima di allora le Ong italiane, pur nate da un grande movimento internazionale, erano perlopiù dei circoli chiusi, anche presuntuosi per esempio nei confronti delle imprese.
Il marketing per il Cesvi ha significato ascolto dei donatori e radicamento sociale. Ciò ci ha consentito di mettere a punto un modello di accountability che ci ha portato a vincere per primi l’Oscar di Bilancio nel 2000 e di rivincerlo per primi una seconda volta nel 2011. Un modello di accountability riconosciuto a livello internazionale, che mette il Cesvi in condizione di raccogliere all’estero il 75% delle risorse che amministra.
Ma il marketing non è buono. O cattivo. Dipende dalle finalità: sicuramente l’immagine di un bimbo che piange, con la pancia gonfia e le mosche agli occhi raccoglie più fondi di quella un bambino felice. Ma una campagna che evoca pietismo e fa leva sui sensi di colpa non educa alla solidarietà e alla fraternità – obiettivi sanciti nello Statuto e nella Missione del Cesvi. Ecco, mentre nell’approccio ideologico dell’etica “assoluta” il fine finisce per giustificare i mezzi, le discipline aziendali ci aiutano a perseguire il valore dell’integrità proponendo i modelli “laici” tipici di un’organizzazione per obiettivi. Come l’individuazione di una missione, la definizione di obiettivi strategici e la stesura di un Documento di Missione e Visione che sancisce l’etica dell’organizzazione che a sua volta genera specifici codici di condotta. Il marketing – come è stato detto – è fondamentale per definire questa “identità” dell’organizzazione.
Identità – insieme a narrazione e simbolo – è una delle tre parole chiave indicate da Morici per lo sviluppo del marketing. Le altre due le troveremo nella case-history che vi presento: la campagna Fermiamo l’AIDS sul nascere, in cui il marketing è stato componente essenziale di successo.
Nel 2000 l’Africa sembrava perduta e i nostri progetti di gestione delle risorse naturali da parte delle comunità apparivano a dir poco bizzarri in paesi come lo Zimbabwe decimati dall’AIDS, dove un terzo della popolazione adulta era sieropositiva.
Quando invitammo in Italia per la prima edizione di BergamoScienza uno degli scopritori del virus – Robert Gallo – si dichiarò molto pessimista sulla possibilità di sconfiggere la pandemia in Africa, ma di fronte ai nostri primi risultati si ricredette.
Il miracolo lo hanno fatto le donne africane che pur di salvare i loro bambini hanno sfidato lo stigma sociale, l’ignoranza e i pregiudizi.
Ma quel protocollo (PMTCT) per impedire il contagio più ignobile, ingiusto e inconsapevole, non solo funzionava sul campo, ma ci consentiva di raccogliere donazioni in Italia quando ancora non c’erano finanziamenti nazionali e internazionali. E questo lo capimmo con l’aiuto di Nando Pagnoncelli, abbozzando una mappa mentale sugli italiani e l’AIDS. Riuscimmo così a produrre pro bono un’advertising televisivo efficace: i fiocchi simbolo di nascita diventavano neri ma una piccola donazione al numero verde poteva farli tornare rosa e azzurri.
La “narrazione” fu affidata soprattutto al fotografo Giovanni Diffidenti.
Il “simbolo” del successo arrivò il 9 maggio 2001 con il primo bambino trattato che, a differenza del fratello morto, è nato (e cresce) sano da madre sieropositiva, che lo ha chiamato Takunda che il lingua shona significa “abbiamo vinto!”.
Il ricorso a testimonial “autentici” che conoscono e credono nel progetto ci ha consentito di tenere viva la campagna e di affiancare un’azienda italiana – Omnitel che stava diventando Vodafone – nel lancio dell’sms solidale. L’idea era buona perché creava un canale immediato e alternativo di donazione, ma divenne uno strumento efficace solo dopo l’incontro con Claudio Bisio e lo Zelig in Tour (150.000 sms da un solo operatore).
E infine l’esperienza di co-marketing con Mediaworld/Saturn con un’iniziativa di comunicazione interna di rilievo internazionale che ha portato l’azienda nella graduatoria italiana The Best Place To Work e generato un progetto di empowerment femminile nelle baraccopoli di Cape Town.
Quali sono per il Cesvi le nuove sfide in cui sarà utile il marketing?
Se la nostra accountability nei confronti dei donatori è da primato, serve un nuovo impegno nei confronti dei beneficiari. Lo dobbiamo alla nostra missione che fonda l’efficacia della nostra azione sui processi partecipativi. Lo dobbiamo fare per accresce l’impatto della nostra azione. Perciò il maggiore ascolto e la ricerca di marketing ci sono preziosi.
Foto di copertina: Giovanni Diffidenti