Testo e foto di Loris Palentini
Nella vita di un cooperante se ne vedono di progetti. A volte pessimi, spesso buoni, e solo in minima parte eccellenti.
Il progetto di Shashe è uno di questi pochi che si possono considerare senz’ombra di dubbio eccellenti. Non è stato un cammino facile, tanto meno in discesa, ma i sacrifici e il lavoro hanno pagato. Iniziato oltre cinque anni fa quasi per scommessa, è ora una realtà a cui guardano in molti. All’inizio, c’erano poco più delle macerie di un vecchio sistema d’irrigazione degli anni ’60. Degli oltre 180 ettari originali, ne erano rimasti poco più di una ventina e i beneficiari erano costretti a ruotare avendo a disposizione meno di mezzo ettaro ogni 2-3 anni.
La scommessa è stata quella di guardare avanti senza paura del cambiamento, di rinnovare i vecchi paradigmi e di aiutare una comunità dispersa nel mezzo del nulla a credere a tal punto in se stessa da provarci. Un salto a piè pari nel futuro abbandonando tecniche di coltivazione inefficienti ed inefficaci per guardare a un sistema irriguo moderno, che punta a ridurre l’utilizzo di risorse e al contempo a massimizzare la resa. L’irrigazione per allagamento, inefficiente in climi caldi e soggetti a un’elevata evaporazione, è stata sostituita da quella a pioggia, che permette un risparmio di oltre il 50% d’acqua, e di conseguenza di energia. Il concetto di provvedere al sostentamento familiare, e quindi coltivare per il proprio fabbisogno, è stato sostituito con quello di coltivare ciò che più rende a seconda della stagione e del clima, e soprattutto ciò che ha maggior valore sul mercato. E ancor meglio, produrre in accordo col mercato così da evitare le giacenze e ottenere il miglior prezzo.
Non è stato facile promuovere il cambiamento di mentalità e tradizioni di un’intera comunità. Ci sono stati molti momenti bui, e di certo ce ne saranno ancora, ma possiamo dire, con un pizzico d’orgoglio, di sentirci sulla strada giusta. Io almeno mi ci sento!
Dopo cinque anni, quei 20 ettari malamente e inefficacemente irrigati sono diventati 90 ettari irrigati a pioggia e popolati da oltre 20.000 alberi d’arancio; tra i filari vengono inoltre coltivati anche fagioli, mais, zucche, cavoli e ogni raccolto per cui ci sia domanda di mercato. La comunità, scettica all’inizio, è ora unita e disposta a lavorare per il proprio futuro perché ha pian piano capito che non era un altro progetto come tanti’, ma qualcosa in grado di dare un futuro a ognuna delle famiglie che ne fanno parte. Abbiamo cercato di guidare una comunità fuori dal circuito della dipendenza dai sussidi e dagli aiuti, di darle gli strumenti, tecnici e culturali, per progettare il proprio futuro. E così gli abitanti si sono costituiti in un trust, una sorta di cooperativa con dei soci e un consiglio d’amministrazione in grado di gestire le risorse per la verità ancora poche e di pianificare e fare scorta per garantire risorse sufficienti al momento giusto.
Lo scetticismo era alto quando all’inizio di questa avventura si parlava di cinque anni d’attesa per vedere il primo raccolto di arance, ed era alto quando il mercato locale di succo concentrato ha dimezzato il prezzo all’acquisto. Ma, come mi hanno insegnato gli amici zimbabwani, c’è sempre un piano B. Ecco quindi che il disastro annunciato si è trasformato nell’opportunità per il progetto di uscire dalla comunità, approcciare il mercato nazionale e puntare più in alto. È stata quindi una grande emozione ricevere direttamente da Shashe le foto delle prime 30 tonnellate di arance elegantemente confezionate e caricate su un camion alla volta dei mercati della capitale Harare, con ben 2 anni d’anticipo sulle più rosee aspettative.
Il cammino è ancora lungo e la comunità non è ancora pronta a procedere da sola. Per questo Cesvi ha lanciato la campagna “Adotta un filare”, a cui chiunque può aderire. Un modo semplice per trasformare questo sogno in realtà, accompagnando la comunità nell’ultimo tratto di questo tortuoso cammino verso l’indipendenza.