L’ISPI mi ha chiamato a discutere un rapporto per lo sviluppo della presenza italiana in Africa Subsahariana, commissionato dal Ministro italiano degli Esteri. Un ottimo lavoro che – come dice il titolo – invita l’Italia a Scommettere sull’Africa emergente (Rapporto ISPI per il Ministero degli Affari Esteri, dic. 2013, 232 pagg.).
Quella che il rapporto presenta è un’Africa che cambia: dipinta nel 2000 come il continente alla deriva o addirittura senza speranza, è oggi in crescita (più del resto del mondo) e in trasformazione. Una crescita non trainata solo dalla ricchezza di risorse naturali e una trasformazione che ha significato anche più democrazia.
Ma fra i protagonisti degli investimenti sull’Africa manca l’Italia. Il rapporto è ricco di numeri, ma il dato forse più impressionante è il disimpegno politico. Mentre Lula durante i suoi due mandati (2003-2010) ha visitato 23 Paesi dell’Africa Subsahariana, seguito dal leader cinese (22) e da 9 visite dei Presidenti americani (Bush e Obama), i capi del Governo italiano che si sono succeduti (Berlusconi-Prodi-Berlusconi) hanno all’attivo una sola visita di Prodi. Risultato: nello stesso periodo l’interscambio commerciale Brasile-Africa subsahariana è raddoppiato, superando quello con l’Italia!
D’altra parte la narrativa dei media italiani che raccontano solo l’Africa delle guerre, dei rapimenti e della miseria non spinge le piccole e medie aziende a investirvi. Così, a fronte della presenza delle nostre poche multinazionali (idrocarburi in primis) il nostro tessuto industriale (che sta resistendo alla crisi proprio con l’internazionalizzazione) non coglie l’occasione dell’interscambio col continente che ci è più vicino e nel quale il nostro modello dei distretti potrebbe più facilmente imporsi a cominciare dai settore della green economy e dell’agricoltura biologica.
Secondo il rapporto, è perciò arrivato il momento per l’Italia di puntare sulla diplomazia della crescita. Come Cesvi, nel nostro piccolo, questa scelta l’abbiamo fatta negli anni Novanta, convinti che in Africa ci fossero le risorse per lo sviluppo: bisognava solo crederci.
Ci abbiamo creduto anche nello Zimbabwe di Mugabe, che sotto i nostri occhi faceva precipitare il Paese nella crisi (dal 1998 al 2008 il PIL si è dimezzato). Nel 1998 eravamo là per un grande progetto di gestione delle risorse naturali (il Gran Limpopo, il più grande parco del mondo a cavallo di Sudafrica, Mozambico e Zimbabwe, a cui ancora stiamo lavorando) come occasione di sviluppo per le comunità più povere e isolate, escluse da una prospettiva di sviluppo agricolo. Ma era impossibile vincere perché lo Zimbabwe stava morendo: di AIDS. Così nel 2000 lanciammo una sfida alla malattia proponendo alle donne incinte di testare la loro sieropositività per far nascere bambini sani. Le donne sono la prima grande risorsa dell’Africa. Le donne dello Zimbabwe sfidarono le superstizioni e dimostrarono che la pandemia si poteva sconfiggere. Oggi in Zimbabwe ci occupiamo anche di sviluppo della produzione di arance, un’agricoltura tradizionale che può crescere – nonostante i cambiamenti climatici anche in zone semidesertiche – con semplici tecnologie di irrigazione e captazione delle acque. E con queste, e tante altre produzioni agricole per il commercio e l’autoconsumo e il miglioramento della dieta alimentare, facciamo argine all’economia di rapina del land grabbing.
Ho raccontato questa storia per dimostrare che le ONG possono svolgere in collaborazione con le imprese anche nelle peggiori situazioni un importante ruolo nella diplomazia della crescita dell’Italia in Africa. Bisogna che il nostro Paese ci creda. Innanzitutto spostando risorse che oggi vengono ancora indirizzate in gran parte alle missioni militari. Fortunatamente è finita l’epoca dello scontro delle civiltà e stiamo cercando tutti insieme (anche con i militari che devono assicurare la sicurezza come precondizione dello sviluppo) di costruire ponti fra le civiltà. E come Italia abbiamo anche l’interesse a sviluppare questa prospettiva, perché la nostra forza è nel soft power.
Bisogna che le ONG italiane siano sostenute non solo attraverso i bandi per progetti, ma anche finanziamenti ai programmi come avviane per le grandi ONG nordeuropee. L’esperienza del Cesvi in Zimbabwe dimostra che l’orizzonte del singolo progetto non è sufficiente né dal punto di vista temporale, né delle dimensioni territoriali, né dei molteplici settori di attività che richiede la cooperazione per lo sviluppo.
Oggi la principale forma di dono che le ONG possono portare all’Africa è quella della conoscenza. Nella diffusione della conoscenza non ci si impoverisce (perché non si perde il sapere) e ci si arricchisce (di nuove conoscenze). Un progetto appena concluso dal Cesvi ha portato in Kenya l’esperienza della Responsabilità Sociale attraverso la certificazione child labour free della supply chain da parte di un’iniziativa tripartita (Ministero del Lavoro, Sindacati, Federazione della Aziende). Per ora, delle 30 imprese coinvolte nel progetto, solo una è arrivata alla certificazione: la Frigoken Limited, ma i numeri sono già impressionanti perché l’azienda ha 4.000 dipendenti e soprattutto ha più di 20.000 fornitori. Tutti piccoli agricoltori, produttori di legumi e ortaggi, che ora sanno che i figli devono frequentare la scuola e non lavorare nei campi. Speriamo che il nostro Ministero degli Esteri finanzi un progetto per la prosecuzione e la stabilizzazione di questa attività.
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Foto di Fulvio Zubiani