Testo e traduzione di Matteo Manara
Enias Marama è il “baba” (papà) di tutti i bambini della Casa del Sorriso. È lui che li fa sentire protetti, amati e accettati, proprio come in una famiglia. Ha un cuore grande in cui c’è spazio per accogliere anche le storie più difficili e un ufficio alla porta del quale basta bussare per esporre un problema o ricevere un prezioso consiglio. Ha da poco festeggiato 20 anni di lavoro con Cesvi, occasione ideale per raccogliere la sua preziosa testimonianza.
Come inizia la tua lunga storia con Cesvi?
Nel marzo 2001 venni selezionato come operatore sanitario nell’ambito del programma di prevenzione della trasmissione del virus HIV da mamma a bambino. Quel progetto, iniziato in un momento in cui in Zimbabwe non erano disponibili strutture per il test e il trattamento dell’Aids, testò e validò un protocollo di così grande efficacia che il governo lo adottò integralmente a livello nazionale e ne fa uso ancora oggi!
Per arrivare ai bambini di strada… ci vuole un bel salto!
Il passaggio avvenne nel 2012, e inizialmente pensai che non sarei durato più di due settimane. Davvero! Non è facile avere a che fare con i bambini di strada, perché essendo sempre stati privi di una guida non sanno come relazionarsi con gli altri. Gridano, fanno a botte, mancano di capacità di mediazione. Ascoltare le loro storie, così toccanti, è il primo passo per iniziare a capirli e ritrovare il loro lato più umano: sono bambini e ragazzi come gli altri, però vittime di una società in frantumi che non è più in grado di badare ai propri figli, al proprio futuro. E così quelle due settimane sono diventati 8 anni di intensa crescita personale…
Quali sono i maggiori pregi e “difetti” del tuo lavoro?
Ascoltare le tristi storie di questi bambini, giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, ti svuota psicologicamente. È molto più che un lavoro, è come vivere una “chiamata” che spesso ti fa andare oltre il senso del dovere e per cui non basta una semplice qualifica professionale. Allo stesso tempo è gratificante vedere un bambino di strada reinserito socialmente, ricominciare ad andare a scuola (fino a volte a raggiungere l’università) e diventare un cittadino responsabile che contribuisce al sostentamento della sua famiglia. Potrei raccontare così tante storie di successo! Gladys, Beverly, Pemberai, Takudzwa…
Se dovessi sceglierne una, quale sarebbe?
Non ho mai dimenticato la vicenda di Tinashe, arrivato alla Casa del Sorriso all’età di 11 anni. Orfano di entrambi i genitori a causa dell’Aids, viveva felicemente con il nonno finché questi, vedovo, decise di risposarsi. Da quel momento Tinashe si rese conto di essere l’oggetto di frequenti litigi, con il nonno che accusava regolarmente la moglie di non prendersi cura del ragazzo, con cui non andò mai d’accordo. Una notte, dopo l’ennesima lite in cui aveva udito pronunciare il suo nome, Tinashe prese carta e penna e scrisse un biglietto di addio, che lasciò sul tavolo della cucina prima di scivolare silenziosamente fuori dalla porta: “Ho deciso di lasciare casa e di andare a vivere in strada, così che tu possa essere felice con la tua nuova moglie. Ti voglio bene”. Per me questo ragazzo è un santo: ha rischiato di sacrificare tutto il suo futuro per la felicità del nonno. Noi lo accogliemmo, gli stemmo vicino e contribuimmo alla sua riabilitazione: oggi è adolescente e vive fuori dallo Zimbabwe con un altro parente.
Una persona della tua età (non la diciamo!) ha ancora sogni da realizzare?
Non c’è un’età a cui si smette di sognare. Il mio desiderio più grande è che in Zimbabwe si possa tornare ad incarnare i valori della cultura africana di un tempo, quando davvero “a crescere un bambino era un intero villaggio”.
Foto di Giovanni Diffidenti