Giulia Brescianini è la Project Accountant di Cesvi per Haiti, Mozambico, Zimbabwe e Sudafrica. Recentemente è stata in missione ad Haiti, dove Cesvi sta supportando la popolazione colpita dall’uragano Matthew con un intervento di ricostruzione e rafforzamento della sicurezza alimentare. Le abbiamo fatto qualche domanda per comprendere meglio il suo ruolo all’interno dell’organizzazione, e per farci raccontare le sue impressioni su un Paese in costante fermento.
D: Come è cominciata la tua esperienza in Cesvi? Che cosa ti ha spinto a scegliere di lavorare in un’organizzazione che si occupa di cooperazione internazionale?
R: Ho mosso i primi passi in Cesvi nel 2010, entrando come assistente in Unità Progetti. Questa esperienza mi ha permesso di entrare in contatto con ambiti di lavoro paralleli a quello di cui mi occupavo, tra cui il mondo dell’amministrazione e della rendicontazione finanziaria. È un aspetto che mi ha fin da subito affascinato molto, perché è ciò che ci rende responsabili e trasparenti agli occhi dei donatori, sia pubblici che privati. Il caso ha voluto che qualche mese dopo la fine del mio servizio civile la sede cercasse un amministratore, e mi hanno richiamata.
D: Spiegaci meglio: di che cosa si occupa nel dettaglio un Project Accountant, o amministratore di progetto, e perché il suo lavoro è così importante per un’organizzazione come Cesvi?
R: L’amministratore di progetto è il referente contabile, finanziario e amministrativo per i Paesi di riferimento. Si occupa di raccogliere, elaborare e preparare i dati economici e finanziari che vengono utilizzati per stilare il bilancio annuale, fondamentale strumento di rendicontazione a tutti i livelli. Il suo sguardo è orientato al contenimento dei costi e alla corretta allocazione delle spese, ma è utile anche per suggerire a chi gestisce i progetti delle strategie per renderli più performanti o per risolvere situazioni critiche.
D: Periodicamente l’amministratore svolge anche delle missioni sul campo. Come vivi questo tipo di esperienze? Ricordi la tua prima missione?
R: La prima missione non si scorda mai! È stata in Palestina, nel 2015. È stata un’esperienza immersiva, totalizzante, come poi ho scoperto sarebbero state tutte le missioni. È sicuramente una delle parti più interessanti del nostro lavoro, perché ti riporta a contatto con il senso di ciò che fai: non penso solo all’incontro con le persone che aiutiamo, che è indubbiamente di fortissimo impatto, ma anche all’opportunità di conoscere lo staff sul campo, con cui normalmente si lavora a distanza. Andando in missione comprendi meglio il contesto, le persone che lo abitano. Ti immergi nella realtà locale: nelle chiacchiere, nelle immagini, nei colori, negli odori…
D: A proposito di missioni, sappiamo che sei appena tornata da Haiti: puoi descriverci la situazione del Paese?
R: È stata la mia prima volta ad Haiti, e ci sono capitata in un periodo abbastanza movimentato: il giorno prima del mio arrivo [6 ottobre 2018] c’è stato un terremoto di magnitudo 5.9 nel nord del Paese. Ha causato 18 morti e, pur non avendo fatto danni alla nostra sede di Les Cayes, che si trova nel sud, il clima che si respirava non era dei migliori.
Solo una decina di giorni dopo, poco prima che ripartissi [17 ottobre 2018], è stata organizzata in tutto il Paese una grande manifestazione antigovernativa per protestare contro la corruzione e il rincaro dei prezzi della benzina. Haiti sta attraversando una fase politica molto delicata: l’estate scorsa è scoppiato uno scandalo per il furto di oltre due milioni di dollari da Petrocaribe, un fondo di cui beneficiano diversi paesi caraibici – tra cui Haiti – e che consente loro di acquistare il petrolio a prezzi agevolati. Del furto sono stati accusati alcuni esponenti governativi, ed è esploso il malcontento popolare.
Il terreno d’altra parte era molto fertile: ad Haiti la povertà è dilagante, ed estremamente tangibile, sotto gli occhi di tutti.
D: Raccontaci le tue impressioni personali: che cosa hai portato a casa da questa missione?
R: Ho potuto farmi un’idea della complessità che governa tanti aspetti della vita di questo Paese, dal disbrigo di una pratica burocratica, che deve tenere conto di continui cambiamenti dovuti a un’incertezza amministrativa di fondo, agli spostamenti quotidiani, ostacolati da una pessima viabilità: quando piove le strade diventano subito impraticabili.
In positivo invece, sono rimasta folgorata dai colori: ha piovuto a lungo, e la vegetazione era di un verde mai visto prima. Ovunque ti volti ad Haiti vedi colori accesi: le case, i muri, i vestiti delle persone, tutto brilla di colore. L’effetto che produce questa vivacità cromatica accostata alla povertà è stridente: forse è proprio questa l’immagine più vivida che conservo dalla missione.
Haiti è il Paese più povero dell’emisfero settentrionale e tra i più colpiti dalla denutrizione, di cui soffre più del 45% della popolazione. A rendere la sua situazione così problematica è un insieme di fattori sfavorevoli, che combina l’alta incidenza di disastri naturali all’instabilità politica e al persistere di un’agricoltura di pura sussistenza.
L’intervento di Cesvi punta a migliorare la sicurezza alimentare della popolazione delle aree considerate più vulnerabili (in particolare le province di Aquin, Pestel e Corail), che nel 2016 sono state duramente colpite dalla furia dell’uragano Matthew. Grazie al finanziamento di ECHO, a beneficiarne sono più di 28.000 persone a cui, a seconda delle esigenze, Cesvi fornisce una casa resistente agli shock ambientali, o supporto alla ripresa delle attività agricole, o ancora accesso ad acqua pulita e sicura grazie alla riabilitazione dei sistemi d’irrigazione e idrici.
Foto di Valentina Prati