Mohamed Asan, vice Responsabile dei Programmi Cesvi in Somalia, ha partecipato come relatore al lancio dell’Indice Globale della Fame, che si è tenuto a Milano l’11 ottobre scorso. Il suo intervento ha testimoniato l’effettiva realtà di fame e migrazione in un Paese che ne conosce bene le interconnessioni – la Somalia -, fornendo al pubblico un punto di osservazione privilegiato sul tema. Abbiamo approfondito con lui la sua storia professionale e la sua visione di una Somalia diversa, finalmente affrancata dall’aiuto umanitario.
Testo e foto di Valentina Prati
“Sono figlio di due Paesi, ma il mio cuore è somalo”. Inizia così a raccontarsi Mohamed Asan, da due anni impegnato con Cesvi tra Kenya e Somalia.
Mohamed, raccontaci la tua storia.
Sono nato da genitori somali in una piccola città del Kenya chiamata Isiolo, vicino al confine settentrionale con la Somalia. In Somalia mio padre allevava bestiame, ma si è dovuto spostare in Kenya quando questo è stato decimato da una delle frequenti carestie. Ha trovato lavoro come guardia in un’università del Kenya centrale, e credo sia stato in quel contesto che ha maturato la volontà che tutti i suoi sei figli potessero studiare per dare loro tutte le chances che lui, analfabeta come mia madre, non ha potuto avere nella sua vita.
Ma le risorse economiche erano poche e così io, terzo di sei fratelli, ho dovuto fare i più svariati lavori, dal contadino, al commesso, al carrettiere, per potermi mantenere. È stata dura, ma non rinnego nulla, perché tutte le difficoltà e tutte le discriminazioni che ho vissuto in quanto somalo in terra kenyota, mi hanno reso quello che sono oggi: un professionista nella posizione di poter fare qualcosa di importante e concreto per aiutare i miei concittadini che soffrono.
Com’era la situazione in Somalia la prima volta che ci hai messo piede?
Sono andato per la prima volta nel mio Paese d’origine nel 2011 come nutrizionista in una missione della sezione operativa belga di Medici Senza Frontiere; in quel periodo, la Somalia stava vivendo una delle peggiori carestie della storia. Ancora oggi mi costa molta fatica pensare a quel periodo, rivedermi davanti file di madri con in braccio i figli malnutriti, in competizione per le poche risorse disponibili per fronteggiare l’emergenza sanitaria e alimentare. Capitava di ammettere un bambino per curarlo dalla malnutrizione, per riammetterlo poi per curarne il morbillo, e vederlo poi morire a causa del colera. È stato senza dubbio uno dei momenti più difficili della mia vita.
Come sei arrivato a Cesvi?
Quando nel 2013 MSF ha chiuso la missione nel Paese per motivi di sicurezza, ho continuato a tornarci saltuariamente per brevi consulenze: per me era insopportabile il pensiero di abbandonare i milioni di persone che avevano bisogno di aiuto per sopravvivere. Quando Cesvi nel luglio del 2016 mi ha dato l’opportunità di diventare Programme Manager per la Somalia, ho deciso di coglierla al volo. Ora vivo tra il Kenya, dove c’è la mia famiglia e l’ufficio del Cesvi, e la Somalia, dove implementiamo un programma integrato di salute, nutrizione e sussistenza.
Come mai la tua famiglia non vive in Somalia?
Quando sono nati i nostri figli, io e mia moglie, una donna somala cresciuta in Kenya che ho conosciuto quando faceva l’infermiera per MSF, ci siamo dovuti rassegnare al fatto che non ci sarebbe stato possibile crescerli nel Paese che amiamo di più al mondo. La Somalia non ha ancora raggiunto un livello accettabile di sicurezza, e il sistema scolastico non è abbastanza sviluppato.
Com’è la Somalia?
La Somalia è un Paese bellissimo; abbiamo il popolo più ospitale e ottimista del mondo, e le coste più lunghe dell’Africa.
E dal punto di vista umanitario?
Se penso a quando l’ho vista per la prima volta con i miei occhi, i miglioramenti sono incredibili. Ma prima dei conflitti e dell’instabilità politica, negli anni ’70, la Somalia era chiamata “la Svizzera d’Africa”, ed è a quegli standard che voglio che il mio Paese faccia ritorno. Oggi abbiamo un governo federale che riesce a tenere abbastanza sotto controllo la situazione, ma è anche vero che gli scoppi di ordigni e tumulti sono ancora tanto frequenti da non destare granché la nostra attenzione.
Il supporto della comunità internazionale è fondamentale: è grazie a questo se lo scorso anno abbiamo evitato un’altra carestia come quella del 2011. Purtroppo credo che non ci sarà possibile affrancarci presto da questo tipo di aiuto, ma credo sia necessario che questo supporto si trasformi da “umanitario” a “sviluppo”, così che il Paese e la sua gente possano incrementare i propri mezzi di sussistenza.
Come vedi il suo futuro?
Credo che la Somalia avrà la possibilità di riabilitarsi da un punto di vista umano, sociale e infrastrutturale se il suo sistema di governance e il processo di peacebuilding verranno supportati nel modo giusto. Questo non potrà avvenire senza il sostegno della comunità internazionale, anche se credo che sia necessario avviare un cambiamento nella tipologia di supporto fornito: da quello attuale, che ha l’obiettivo di supplire ai bisogni immediati e primari della popolazione, a uno che integri in maniera più decisa un intervento di sviluppo in grado di potenziare le capacità di sussistenza e di resilienza della popolazione.
Che ruolo sta giocando Cesvi nel Paese?
Cesvi opera in 4 regioni della Somalia (Mudug, Hiraan, Banadir, Lower Shabelle) secondo un approccio integrato che combina interventi nelle aree della salute, della nutrizione, della sicurezza alimentare, della resilienza, dell’igiene e dell’accesso all’acqua potabile. La sua forza sta negli oltre 200 membri somali dello staff che ogni giorno mettono a rischio la propria vita per portare sollievo alla popolazione, spostandosi sul territorio per raggiungere anche le località più remote. Siamo la più grande missione di Cesvi al mondo, e ne andiamo molto orgogliosi.
Stiamo davvero facendo la differenza per la vita delle persone che aiutiamo?
Indubbiamente. Se penso all’impatto di Cesvi, mi vengono in mente mille esempi da fare, ma uno è particolarmente importante per me. Si tratta di una donna e di suo figlio, provenienti da un villaggio chiamato Elesha, a una ventina di chilometri da Mogadiscio. Questa donna si è presentata al nostro centro sanitario con il figlio malato, che non riusciva a respirare. Era particolarmente importante per noi salvare questo bambino, perché la donna aveva avuto problemi a concepire e aveva già vissuto due dolorosi aborti spontanei. L’abbiamo stabilizzato e rimesso in forze; oggi frequenta ancora il nostro centro sanitario per i controlli pediatrici di routine: vederlo entrare camminando sulle sue gambe, sorridente e in salute, è la prova evidente che il nostro impegno è fondamentale, e che non può, e non deve, fermarsi qui.