testo e foto di Tino Mantarro
A quattro anni e mezzo tra giocare e lavorare non c’è tanta differenza. O almeno così ti fanno credere gli altri, i grandi. «Non capivo che fosse un lavoro: dovevamo smuovere il riso disteso per terra, muovendolo con le mani e con i piedi come se fosse sabbia. Tutti i giorni, due volte al giorno. Era quasi un gioco». Sekthavel, dodici anni, è un ragazzino timido e magro.
L’hanno avvisato che uno straniero voleva parlare con lui, per cui è arrivato con i capelli impomatati, la riga ben curata e il vestito della festa. Ha un sorriso prepotente e il fisico nervoso, a suo modo muscoloso, nonostante pesi sì e no quanto un sacco di riso.
A quattro anni e mezzo Sekthavel ha iniziato a lavorare nel mulino dove la sua famiglia vive ancora oggi, nelle campagne a un’ora da Chennai, Tamil Nadu, estremo sud dell’India. Ma forse vivere non è il verbo adatto, perché vivere in un luogo implica una scelta, mentre la sua famiglia è costretta a risiedere nel mulino.
«Sono persone che hanno contratto un debito con il padrone del mulino e per ripagarlo devono lavorare lì dentro: una forma di lavoro schiavo molto diffusa in questa zona sia nei mulini che nelle fornaci di mattoni» spiega Alli Basker dello staff indiano di Cesvi. Una forma di lavoro che implica anche lo sfruttamento dei bambini. «Semplicemente perché così è sempre stato e nessuno riesce a concepire che possa essere diversamente. I padroni hanno figli a loro volta e se chiedi loro se li farebbero mai lavorare ti guardano inorriditi. Ma per loro questi bambini sono diversi, non sono bambini, non sono neanche persone, sono i loro schiavi» aggiunge.
«Da quando avevo quattro anni e mezzo ho lavorato al mulino tutti i giorni. Dal mattino alle sei fino alle undici, e poi ancora dalle sei di sera per altre due ore» racconta Sekthavel. Fino a sette anni ha lavorato senza guadagnare alcunché. «Poi il padrone dava a mio padre dieci rupie al giorno per la mia parte di lavoro. Lui ne guadagnava 80» sottolinea.
«Da quelle 80 rupie viene poi scontata una parte per rifondere il debito che la famiglia ha con il padrone, spesso contratto per sposare un figlia o per curare una malattia, e una parte per l’alloggio» spiega Basker. Perché la famiglia di Sekthavel ha vissuto tutta la vita all’interno delle basse mura del mulino. «Non sanno cosa sia il mondo esterno, la sera li chiudono dentro».
L’abitazione della famiglia di Sekthavel occupa una stanza bassa di cemento di due metri per quattro con una sola apertura, la porta. Qui cucinano, dormono stesi per terra, guardano la televisione, allevano i bambini e lavorano. Nel mulino dove è cresciuto Sekthavel le famiglie legate al padrone sono 16. Lui vive ancora lì, con la mamma, un fratello di 16 anni e un nipotino di pochi mesi. Il padre è morto un paio di anni fa.
«Con questo padrone siamo riusciti a parlare, a far capire che i bambini devono andare a scuola e non lavorare, anche se è stato davvero difficile. Ma adesso tutti vanno a scuola, e per i più piccoli è stato allestito un piccolo asilo gestito dall’associazione indiana Jeeva Jyothi, partner locale di Cesvi nel progetto Case del Sorriso» aggiunge Basker.
Finalmente Sekthavel può andare a scuola: anche se ha perso i primi quattro anni, è stato iscritto direttamente alla quarta classe. «Il primo giorno non avevo paura, anche se non conoscevo nessuno, a parte i ragazzi del mulino che però non erano nella mia classe. Gli altri bambini mi chiedevano perché non ero andato a scuola fino ad allora. Io ho spiegato che lavoravo con i miei genitori. E loro mi hanno detto che no, non dovevo. Dovevo studiare e farmi un futuro» racconta. Così per recuperare ha fatto le serali e adesso sogna di poter continuare gli studi. «Vorrei finire la decima classe e arrivare all’esame del dodicesimo anno, per poi andare a lavorare in qualche ufficio e guadagnare di più. Non voglio fare la vita dei miei genitori» spiega accennando un sorriso.
«Se però avessi bisogno di quelle dieci rupie per dar da mangiare ai tuoi bambini, cosa faresti?» gli chiede Basker. Sekthuvel ci pensa su, sorride nuovamente, scuote la testa lievemente a destra e sinistra, in quel modo ciondolante degli indiani e poi dice: «Io li manderei lo stesso a scuola e cercherei di lavorare di più. Non voglio che i miei figli provino quello che ho provato io. Quando ero piccolo e non andavo a scuola non mi mancava. Non sapevo neanche che esistesse, vivevo tutta la mia vita qua dentro. Non uscivo mai. E tutti i bambini erano come me, nessuno andava a scuola. Adesso ho visto che c’è un’altra vita fuori di qui: c’è la scuola che è importante per i bambini».
E non ha nessuna intenzione di rinunciare alla sua nuova vita di bambino e non di schiavo.