Da domenica 15 dicembre, violenti scontri tra fazioni militari rivali si stanno verificando in Sud Sudan, il più recente Stato del mondo, nato nel 2011 ottenendo l’indipendenza dal Sudan. Da un lato ci sono i militari legati al presidente di etnia Dinka e dall’altro i sostenitori dell’ex vicepresidente ribelle di etnia Nuer.
Si stima che almeno 1.000 persone siano state uccise e che il numero di sfollati sia salito a 325mila. Il rischio di epidemie, inoltre, si fa sempre più concreto.
Il 19 dicembre anche la base ONU di Akobo, al confine con l’Etiopia, è stata oggetto di violenze che hanno provocato la morte di tre caschi blu indiani.
Cesvi sta monitorando la situazione giorno dopo giorno. Due sono gli interventi in corso nel Paese: il primo riguarda la sicurezza alimentare, mentre il secondo coinvolge bambini e adulti in attività di supporto psicosociale.
Dal 2011 l’organizzazione opera nel Northern Bar el Ghazal, Stato a nord-ovest, per far fronte al fenomeno dei returnees, l’esodo di circa 170mila persone native del Sud Sudan che, all’indomani dell’indipendenza, sono state spinte a lasciare il Nord del Paese per riversarsi nella neonata Repubblica del Sud Sudan. La guerra civile, in quest’area, ha causato il degrado dei servizi di base, che sono ora del tutto inadeguati per la popolazione a causa del consistente flusso migratorio.
Il progetto di food security, finanziato da ECHO-Commissione Europea e realizzato in partnership con l’Ong tedesca Welthungerhilfe, consiste nella distribuzione di attrezzi agricoli e di sementi, nel coinvolgimento delle comunità in attività di cash for work e nella costruzione di dighe per proteggere i campi dalle inondazioni.
Nella contea di Renk, nella parte nord-orientale del Sud Sudan, lavoriamo con Unicef nei cosiddetti spazi amici per il supporto di bambini e adulti spesso vittime di violenze sessuali. Si tratta in gran parte di returnees – spiega Diana Bassani del Cesvi – Le persone spesso si fermano in diversi punti del Paese dove tendono a costruire dei campi, in cui si crea il problema della proprietà della terra. Noi interveniamo dove vivono queste famiglie, che non hanno più possedimenti e risorse. Da una ricerca è risultato che il 63% di loro vuole restare in queste zone, nonostante sia originario di altri villaggi.