Un anno dopo la terribile siccità, la situazione sanitaria e alimentare in Somalia è in leggero miglioramento, anche se rimangono a rischio, secondo l’ultimo bollettino umanitario, le vite di 294.000 bambini malnutriti e di 1,5 milioni di persone, che necessitano urgentemente di aiuti umanitari. Ne abbiamo parlato con Luca Pagliara, residente a Nairobi (Kenya), coordinatore di tutti gli interventi Cesvi nella regione.
Intervista di Matteo Manara
Luca, i nostri donatori si chiedono come mai alcuni paesi, tra cui la Somalia, siano costantemente in crisi nonostante gli aiuti. Perché non si riesce ad uscire dall’emergenza?
C’è un circolo vizioso che è davvero difficile interrompere. In Somalia, per esempio, il 2017 è stato un anno di tremenda siccità: tutto il raccolto è andato distrutto, lasciando un intero paese completamente senza cibo e rendendolo dipendente dagli aiuti umanitari. Chi viveva di pastorizia ha visto morire interi allevamenti e migliaia di persone si sono spostate dalle aree rurali verso le città, alla ricerca di cibo. La siccità, per di più, non ha distrutto solo i raccolti, ma anche tutta la vegetazione. Così quest’anno, quando è arrivata la stagione delle piogge, la terra non era più in grado di assorbire l’acqua, si sono creati smottamenti e allagamenti. Questi bacini di acqua stagnante favoriscono la proliferazione di batteri, come quello del colera, una malattia che in assenza di presidi sanitari alimenta a sua volta la spirale della malnutrizione e diventa mortale. Nonostante abbia piovuto, quindi, l’emergenza continua, anche perché bisognerà attendere l’inizio del 2019 prima che quanto seminato successivamente alla grande siccità porti i suoi frutti.
Cosa sta facendo Cesvi per interrompere questo circolo vizioso? Come state impiegando gli aiuti dei donatori?
In questo momento per assicurare un futuro alla Somalia dobbiamo occuparci con urgenza dei bambini, che saranno gli adulti e i lavoratori di domani. Cesvi gestisce direttamente, prevalentemente attraverso personale locale, 11 centri sanitari che operano nell’ambito della salute materno-infantile e in quello della lotta alla malnutrizione.
Ogni giorno le sale d’attesa sono piene di donne in stato di travaglio o di mamme che attendono che i loro bambini, spesso gravemente malnutriti, vengano visitati e inseriti nel programma di lotta alla malnutrizione. In più, c’è un via vai continuo di donne che vengono a ritirare la razione di cibo per i figli che fanno già parte del programma.
A questo si aggiunge il prezioso lavoro dei team mobili, che si occupano non solo di raggiungere i villaggi più remoti, ma anche di rintracciare e raggiungere le mamme quando non si presentano agli appuntamenti – spesso per l’aggravarsi dello stato di salute di uno dei figli o perché si sono dovute spostare forzatamente in un altro dei numerosi campi per sfollati che si trovano ai margini delle città.
Ogni anno aiutiamo oltre 120.000 persone: non è poco!
C’è motivo di sperare che le cose possano cambiare?
Nonostante la crisi umanitaria, nonostante il terrorismo di Al Shabaab, nonostante l’instabilità politica e istituzionale dovuta alle guerre tra clan, ho motivo di credere che il nostro lavoro e l’aiuto di tutti i donatori stia facendo la differenza in questo Paese.
Un giorno saremo in grado di affidare i nostri centri al Ministero della Salute, oggi completamente privo di risorse economiche e incapace di gestire una rete capillare di presidi medici sul territorio.
Inoltre, posso raccontare un aneddoto relativo alle mie visite di monitoraggio, che per forza di cose raggiungono anche la sala parto: è sempre estremamente emozionante vedere con i miei occhi come in questo Paese, in cima a tutte le classifiche internazionali per mortalità infantile e materna, siamo in grado di garantire alle donne di partorire con dignità, offrendo uno spazio con condizioni igienico-sanitarie adeguate. Per me ogni volta che nasce un bambino rinasce la speranza.