Inside Gaza — La testimonianza di un operatore CESVI tra macerie, resilienza e necessità umanitaria

Inside Gaza - quello che rimane della Striscia di Gaza

«Non abbiamo più le lacrime per piangere tutti i nostri morti.»
La voce di Giulio, Emergency Coordinator di CESVI, porta il peso di mesi vissuti nella Striscia di Gaza, dove la crisi umanitaria continua a peggiorare e la vita quotidiana è scandita da sfollamenti ripetuti, carenze estreme e un dolore che non trova più spazio per essere elaborato. «Forse, quando tutta questa follia sarà finita, riusciremo a prenderci un momento per piangere. Ma ora questo lusso non ce l’abbiamo.»

Giulio lavora nel settore umanitario da oltre dieci anni. Ha operato in Africa occidentale, Medio Oriente e Ucraina, ma ciò che ha trovato entrando nella Striscia — per la prima volta dopo il 7 ottobre — lo segna profondamente. «I colleghi locali mi ripetono sempre: peccato che tu non abbia visto Gaza prima», racconta. Una Gaza che oggi non esiste più: un territorio ferito, frantumato, dove la popolazione continua a resistere pur in condizioni estremamente difficili.

Un territorio isolato, una popolazione intrappolata

La Striscia di Gaza, 360 km² tra mare e confine israeliano, contava più di due milioni di abitanti. Oggi è quasi impossibile uscirne: il valico di Rafah, unico punto di passaggio non direttamente controllato da Israele, è stato distrutto, mentre il mare e lo spazio aereo sono inaccessibili.

«Sono letteralmente bloccati in una prigione a tutti gli effetti», sintetizza Giulio.

A causa dei ripetuti ordini di evacuazione, centinaia di migliaia di persone vivono in tendopoli improvvisate. Molte famiglie hanno perso più volte la propria casa e si spostano da un capo all’altro della Striscia in cerca di sicurezza. Alcuni tentano di ricostruire piccole attività per sopravvivere: un barbiere sistemando una sedia davanti alle macerie, chi possiede un pannello solare offrendo ricariche di telefoni, chi ha un carro trainato da un asinello svolgendo piccoli trasporti.

«Sono iniziative minime, ma servono a ottenere un reddito e a dare un senso alle giornate, oltre all’attesa del prossimo bombardamento», spiega Giulio.

La crisi alimentare e idrica: una carestia indotta

La carestia che colpisce Gaza non è dovuta alla mancanza di risorse, ma all’impossibilità di farle entrare. «È una fame indotta dalle limitazioni all’ingresso degli aiuti», chiarisce Giulio. Prima del conflitto, Gaza coltivava numerosi prodotti agricoli e le forniture umanitarie presenti ai confini sarebbero state sufficienti a coprire il fabbisogno della popolazione. Ma i camion non riescono a entrare.

La totalità della popolazione vive oggi in condizioni di insicurezza alimentare. Centinaia di migliaia di persone si trovano in fase “catastrofica”, il livello più grave. Alla fame si aggiunge la scarsità di acqua potabile: l’acqua estratta dai pozzi è salata e richiede processi di desalinizzazione che dipendono dal carburante, anch’esso quasi del tutto bloccato.

Il lavoro di CESVI si concentra proprio su questi bisogni primari: distribuzione di acqua tramite autocisterne, supporto igienico-sanitario, gestione delle acque reflue nelle aree più colpite e interventi di emergenza per tutelare la salute pubblica nelle tendopoli.

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Vivere sotto il ronzio dei droni

A Gaza la devastazione non è solo visiva. È sonora. «Il drone è un sottofondo costante. A volte non lo senti più, poi si intensifica e ti ricorda che è lì», racconta Giulio. Le famiglie vivono spesso accanto alle macerie delle loro case, trasformate in punti di riferimento emotivi: «Quella è la motorizzazione, quella è l’università», gli dicevano i colleghi, indicando cumuli di detriti.

La mortalità è altissima: circa una persona su trenta ha perso la vita dall’inizio del conflitto. Ogni famiglia ha subito un lutto.

Il rischio per gli operatori umanitari

Lo staff internazionale vive e lavora in edifici notificati all’esercito israeliano, ma non esiste una sicurezza totale. «È molto meglio stare in una casa notificata, ma non è una garanzia assoluta», precisa Giulio.

Lo staff locale, invece, affronta gli stessi rischi della popolazione civile: vive nelle tende, nelle scuole, negli edifici danneggiati. Più di 500 operatori umanitari palestinesi sono stati uccisi.

«Sono umanitari, ma prima di tutto sono Gazzawi. Hanno la stessa probabilità di essere colpiti degli altri.»

Un sistema di aiuti umanitari reso sempre più difficile

La rete coordinata di distribuzione degli aiuti, gestita in passato da ONG e Nazioni Unite, è stata drasticamente compromessa. Oggi le forniture vengono concentrate in pochi punti, generando folle enormi in condizioni di caos e pericolo.

«Si stima che circa duemila persone abbiano perso la vita in tre mesi solo cercando aiuti umanitari», afferma Giulio. Morti causate da colpi d’arma da fuoco, calpestamenti o scontri per accaparrarsi l’unico pacco disponibile.

CESVI continua a operare nella Striscia cercando modalità sicure e dignitose per distribuire acqua, beni igienici e supporto essenziale, nonostante le restrizioni sempre più rigide.

«La situazione peggiora ogni volta»

Ogni missione rivela una condizione più drammatica della precedente. «È difficile comunicare quanto sia grave la situazione, perché già un anno fa parlavamo di una catastrofe umanitaria senza precedenti. Eppure peggiora.»

Il territorio “vivibile” continua a ridursi, mentre le prospettive di una soluzione urgente restano incerte. Molte persone sognano di poter lasciare Gaza; altre rifiutano l’idea: «Questa è la mia terra e non me ne vado», raccontano a Giulio.

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Il lutto sospeso

Tra le testimonianze più toccanti, Giulio ricorda una collega che ha identificato il corpo dello zio dopo mesi di ricerche. Quando lui le ha chiesto come stesse affrontando il dolore, lei ha risposto:
«Il lutto è un lusso che non abbiamo più.»

Una frase semplice, che racchiude l’intero significato di questa tragedia umanitaria: un popolo che non ha più la possibilità di fermarsi, respirare, ricordare.
Un popolo che continua a resistere, anche senza lacrime.