Mentre i turisti iniziano a entrare in Eritrea per esplorarne le bellezze naturali e gli affascinanti siti archeologici, i suoi cittadini scappano al ritmo di 5.000 persone circa al mese, terrorizzati da un regime dittatoriale responsabile di torture, repressioni violente, abusi sessuali e detenzioni illegittime, ed esasperati da un livello di povertà tale da farne uno dei 15 Paesi con il PIL pro-capite più basso al mondo, secondo il World Factbook della Cia.
Biruk Kifle è un ragazzo eritreo di vent’anni, che un paio di anni fa lascia tutto quello che possiede (casa, famiglia, amicizie) per cercare di costruirsi una vita in un Paese libero dove trovare un lavoro che gli permettesse di mandare un aiuto economico a casa. Si mette in viaggio verso l’Europa, consapevole di imbarcarsi in un’impresa pericolosa e potenzialmente mortale, ma la sua strada si interrompe in Libia. I soldi a disposizione, unitamente alla preoccupazione per il viaggio in mare, non gli permettono di procedere oltre.
Immigrato irregolare, con l’incubo di finire nei centri di detenzione nel caso in cui le milizie lo trovino, passa le giornate nascosto in casa di connazionali. Anche in mancanza di vincoli di sangue, infatti, la comunità d’origine si stringe per darsi supporto nei momenti di crisi.
Biruk esce solo per recarsi al Centro Sociale gestito da Cesvi a Tripoli, uno spazio in cui vengono condotte attività di educazione informale, supporto psicosociale ed eventi di socializzazione e sensibilizzazione, e in cui rifugiati, richiedenti asilo e immigrati possono incontrarsi, conoscersi, supportarsi l’un l’altro e rafforzare se stessi e la propria comunità.
Un giorno Biruk nota un cartello appeso alla bacheca informativa: il Centro è alla ricerca di un interprete eritreo che possa facilitare le attività rivolte ai connazionali, in larga parte minori non accompagnati che partecipano a lezioni di arabo, francese, inglese e informatica di cui non capiscono una parola. “Ho applicato e sono stato selezionato perché sono risultato il più qualificato e motivato. Lavoro come interprete da quattro mesi e finalmente nutro qualche speranza per il futuro. Non si tratta solo di percepire una retribuzione, ma di sentirmi al sicuro e utile alla mia comunità e alla mia famiglia, a cui ora riesco a mandare un contributo economico che li aiuta a sopravvivere. Vorrei continuare su questa strada, specializzandomi nel lavoro di interprete o di operatore sociale per aiutare le persone che hanno vissuto le mie stesse esperienze di vita”.
Le attività che si svolgono nel Centro Sociale di Tripoli sono finanziate da UNICEF attraverso il progetto “Supporto psicologico ed educazione di recupero per bambini sfollati e rifugiati a Tripoli e nei campi Tawergha”.