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di Alberto Giuffrè, giornalista Sky Tg24
C’è un pezzo di mondo dove ogni giorno si sceglie da che parte stare: se svendere una foresta, guadagnare tanto e subito e lasciare, allo stesso tempo, un debito insostenibile con la natura a chi verrà dopo. Oppure se conservare questa foresta. Guadagnare sì ma lasciando i conti in ordine. Per chi vive in Amazzonia è una scelta che divide. Più di un fiume che separa due sponde: si sta da una parte o dall’altra. Più delle stagioni, che qui sono due: non ci sono inverni né primavere, da quella secca si passa a quella delle piogge. La posta in gioco, in questa scelta, non riguarda il futuro del pianeta: è andato avanti per milioni di anni, se la caverà anche questa volta. Però ha a che fare con il nostro futuro e con quanto dovremo adattarci ai cambiamenti che verranno.
In Perù lottare contro la deforestazione vuol dire soprattutto mettersi contro i cercatori d’oro o contro i narcotrafficanti.
Ma perché l’Amazzonia è così importante anche per chi sta a migliaia di chilometri di distanza? “Perché assorbe i gas serra, in primo luogo la Co2, ci spiega Ronald Corvera Gomringer, direttore dell’Instituto de Investigaciones de la Amazonia Peruana: “Quello che accade in Amazzonia – aggiunge – ha conseguenze sul clima del pianeta.
La crisi climatica provocata dall’uomo con l’utilizzo dei combustibili fossili – petrolio, gas, carbone – è la preoccupazione più urgente. Perdere la foresta vuol dire perdere un alleato nel limitare il riscaldamento globale che sta portando in tutto il mondo a eventi estremi sempre più frequenti e intensi. C’è un equilibrio, in particolare, che si sta rompendo: “La foresta – dice ancora Gomringer – sta perdendo la sua capacità di assorbire Co2”.
Grazie a Cesvi, ONG che opera in 90 Paesi in tutto il mondo, e che in Perù è presente da oltre trent’anni, abbiamo visitato alcuni progetti finanziati dall’Unione Europea che cercano di contrastare il fenomeno.
Nella regione di Madre de Dios, una delle zone con più biodiversità al mondo, lottare contro la deforestazione vuol dire soprattutto incentivare le comunità locali a resistere alle tentazioni dei mineros, i cercatori d’oro che offrono soldi facili in cambio di pezzi di foresta.
Tra le comunità c’è quella dei Boca Pariamanu. Ci arriviamo partendo dalla città di Puerto Maldonado, dopo due ore di navigazione sul fiume Madre De Dios.
Boca Pariamanu è una delle 37 comunità native della regione: trentasei famiglie circa di etnia Amahuaca che vivono di quello che producono, raccolgono e cacciano. Ognuno ha un ruolo: c’è il tesoriere e c’è l’addetto alla sicurezza che si occupa di pattugliare i confini del pezzo di foresta assegnato dal governo. Ci sono un asilo e una scuola elementare. Qualche televisione ma nessuna connessione a internet. Qualche anno fa i Boca Pariamanu hanno incontrato Papa Francesco durante la sua visita in Perù. E a Bergoglio, che della difesa dell’ambiente ha fatto uno dei capisaldi del suo pontificato, loro hanno dedicato anche un pezzo di foresta. Qualche anno fa la comunità ha deciso di aprirsi al turismo. Certo, i viaggiatori che vogliono venire qui devono essere più che accomodanti e rinunciare a molti comfort. Ma hanno la possibilità di vedere da vicino come funziona la vita in mezzo agli alberi e soprattutto di osservare la foresta in tutto il suo splendore.
Potere trascorrere le giornate insieme a una comunità amazzonica non è scontato. Alcune di loro sono le cosiddette tirbù “mai contattate”.
Indigeni che, appunto, rimangono al riparo dal resto del mondo. Vivono immersi nella foresta e qualsiasi contatto, visto il loro sistema immunitario, metterebbe a rischio la loro esistenza.
I Boca Pariamanu, invece, si aprono al mondo esterno e allo stesso tempo recuperano la propria identità. “Stiamo cercando di recuperare le nostre tradizioni”, dice Jane Inés Del Castillo Ramírez: “Che siano le nostre bevande, il nostro cibo, il nostro artigianato. Vogliamo recuperarlo perché si tratta di cose molto belle che per noi sono sacre. In passato i nostri antenati, i nostri padroni hanno fatto in modo che venissero dimenticati, non volevano che si continuassero le tradizioni della comunità”.
C’è un frutto del bosco che qui rappresenta più di ogni altro la lotta contro la deforestazione: la noce amazzonica. La castagna, la chiamano qui. Boca Pariamanu è una comunità di castagneros. Il frutto si presenta come una noce di cocco e contiene al suo interno le noci. Viene raccolto da alberi che sono tra i più alti e antichi della foresta . E dalla noce parte una filiera che coinvolge migliaia di persone. Dalla foresta le noci arrivano infatti in consorzi come Ascart dove vengono sgusciate, disidratate, pelate e impacchettate per la vendita. Tutta la filiera segue i principi dell’economia circolare. Ogni parte della castagna viene utilizzata, dando lavoro ad altre persone.
Noce ma non solo. Sempre nella regione di Madre de Dios opera Palsamad, associazione che lavora un frutto che si chiama Aguaje. Si raccoglie dalle palme che sorgono in 2300 ettari dati in concessione per 40 anni. Dal frutto si ricava una bevanda molto apprezzata da queste parti. Un’attività che però non piace ai mineros, sempre alla ricerca di nuovi pezzi di foresta da sfruttare. “Ci hanno invaso per ben due volte”, ci racconta il responsabile dell’associazione: “Quando entriamo nella foresta non possiamo andare da soli, dobbiamo sempre essere in due o tre, perché il cercatore d’oro non ha alcun rispetto”.
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