Haiti: cinque anni dopo il terremoto

 

Martedì 12 gennaio 2010, cinque anni fa, Haiti veniva colpita da un violento terremoto di magnitudo 7.0. Le vittime stimate furono 222.517. A 5 anni di distanza, i riflettori dei mass media sembrano essersi spenti su quello che è considerato il Paese più povero dell’emisfero occidentale, ma la condizione del popolo haitiano rimane gravissima.

In questi anni Cesvi ha continuato i suoi progetti di sicurezza alimentare attivi già prima del sisma e, oltre ad affrontare la fase di emergenza concentrandosi sui progetti nel settore “acqua e igiene”, ha creato una Casa del Sorriso per i bambini della capitale Port-au-Prince.  Un “child friendly space” – uno spazio amico dei bambini – che offre supporto scolastico e ricreativo attraverso il coinvolgimento di animatori ed educatori locali nel quartiere-discarica di Wharf Jérémie.

Ecco il racconto della nostra testimonial, Cristina Parodi, che ha visitato i progetti Cesvi ad Haiti nel 2014.

Testo di Cristina Parodi, tratto da “Chi” – foto di Roger Lo Guarro

La prima impressione che ho avuto arrivando ad Haiti è che il terremoto, terribile, che ha provocato oltre 220mila morti non fosse avvenuto 5 anni fa, ma il mese scorso: strade totalmente dissestate, case distrutte, sporcizia e miseria.

Benvenuti a Port-au-Prince, la capitale, dove vive la maggior parte dei 10 milioni di abitanti di questo Paese, il più povero delle Americhe. Manca un’economia, manca un potere centrale forte, manca una vera democrazia. Tutti i beni di prima necessità vengono importati, l’agricoltura serve solo per la sussistenza, non ci sono imprese e il turismo, nonostante bellezza naturale del posto, è inesistente.

Andiamo a Wharf Jérémie, la periferia più abbandonata, dove il Cesvi ha fondato una delle sue Case del Sorriso, una struttura che oggi accoglie 300 bambini da 3 ai 18 anni.

Romualdo, il coordinatore, è una persona del posto e mi racconta che prima su quel terreno c’era la gigantesca discarica utilizzata non solo per i rifiuti di ogni genere, ma anche dalle bande di narcotrafficanti per sbarazzarsi dei cadaveri scomodi. Oggi un muretto ancora spoglio delimita quest’area di svago e studi preziosissima per tutti i ragazzi poveri della zona.

Ci sono i piccoli che disegnano e cantano, quelli più grandi che studiano matematica e francese. Quasi tutti i bambini parlano solo il creolo. Sono puliti e ben pettinati nonostante vengano da situazioni familiari assolutamente degradate. Ad Haiti quasi nessuno ha un lavoro e nemmeno lo cerca. Questo Paese vive di assistenzialismo e donazioni delle Ong che operano nella zona. Il problema principale di Haiti è questo: pur essendo a un’ora di aereo dalla ricca Miami, resta un pezzo di Africa nei Caraibi, una società in cui la passata schiavitù sembra aver lasciato una traccia indelebile di precarietà e rassegnazione.

Ho incontrato i genitori di alcuni di quei bambini accuditi dal Cesvi: alla domanda che cosa sogni, cosa vorresti per te e i tuoi figli, nessuno ha saputo rispondere. Sono talmente abituati a una vita di miseria che non sanno immaginarne una diversa.

Christella ha nove anni, un grazioso vestitino giallo e un fiocchetto sulla testa come tutte le bimbe haitiane. Ci accompagna nello slum, la bidonville che si estende a perdita d’occhio a due passi dalla Casa del Sorriso. È il posto più terribile che abbia mai visto: una distesa di baracche di lamiera e cartone, senza tetto né pavimenti, senza luce né acqua, dove vivono centinaia di famiglie. Non ci sono fogne ma solo latrine, che per altro non vengono utilizzate, e un fiumiciattolo maleodorante di rifiuti attraversa queste catapecchie trascinando spazzatura e sporcizia. Lei, Christella, ha solo la mamma, Sonia, 45 anni, segnata dalla vita, dall’assenza di un marito, da cinque figli. Mi commuove vedere come abbia cercato di riordinare la sua baracca rimboccando bene i due pagliericci con i copriletti lisi. Vive lì con le tre figlie più piccole ma, mi confessa, deve andare a dormire nella chiesa quando piove perché la sua casa, se così la si può chiamare, si allaga.

Taliman non sorride mai. Gli insegnanti della Casa del Sorriso mi spiegano che ha una storia difficile, era uno dei tanti ragazzi di strada reclutati fin da piccoli nelle gang della criminalità. Hanno fatto fatica a convincerlo a frequentare il centro, veniva un giorno e poi spariva di nuovo. Oggi frequenta le lezioni, mi dice sottovoce che da grande vorrebbe fare l’artigiano e vendere i braccialetti. Per lo meno lui un sogno ce l’ha.

Esco da questa realtà sopraffatta dalle immagini sconvolgenti che ho negli occhi. Sembra incredibile che un posto così bello non riesca a sfruttare le sue risorse: ad Haiti non esiste una classe media, i pochi laureati vanno via, eppure il lavoro non mancherebbe. La maggior parte del territorio è incolto, ma nessuno lo coltiva, anzi si tende a disboscarlo in maniera dissennata per produrre carbone, la manodopera è a basso prezzo, ma le fabbriche non ci sono. Le banche scoppiano di liquidità ma non trovano garanzie sufficienti per prestare i soldi. Tutto ad Haiti è un paradosso.

La gente prega, ringrazia il Signore, ma non fa nulla per migliorare la propria condizione. Mi viene in mente Victor Hugo, l’autore dei Miserabili: diceva dei suoi personaggi che non potevano cambiare vita perché non avevano mai conosciuto altro che la miseria più nera. Gli adulti che ho incontrato nello slum ripetono la stessa cosa: siamo nelle mani di Dio ma non abbiamo un domani. La scommessa che il mondo occidentale e i Paesi ricchi devono vincere ad Haiti è questa: aiutare quella gente a ritrovare una speranza, un sogno in cui credere