Gli occhi dei bambini indiani sono speciali: scuri, grandi, pieni di stupore e di dolcezza. Quelli che mi fissano con sospetto e curiosità in una stanza dalle pareti di lamiera sono gli occhi di piccoli beneficiari di un progetto bellissimo del Cesvi, la casa del sorriso, l’ultima nata delle tante che questa ONG di Bergamo ha creato in molti paesi stranieri, laddove ci sono emergenze di povertà, fame e malattie. Ho viaggiato tanto col Cesvi, di cui sono ambasciatrice da oltre vent’anni, ma ogni volta è una emozione grande scoprire come si possa portare serenità e aiuto in luoghi dove è davvero difficile crescere.
Qui siamo nello slum di Pune dove vivono gli “ultimi” fra i 5 milioni di abitanti di una città in continua espansione. Intorno a me ci sono baracche fatiscenti, strade non asfaltate che con le piogge dei monsoni sono diventate fiumi di fango, cani, corvi e maiali che si contendono i rifiuti. Qui nella zona industriale di una delle città spesso senza lavoro, con bambini da accudire. Eppure entrando in questa piccola stanza fuori dalla quale c’è una fila di sandalini minuscoli, vedo bambini curati, attenti e pronti ad imparare. Anche loro mi guadano e poco per volta perdono la timidezza iniziale e mi mostrano i quaderni ordinati, i disegni ben fatti, mi dicono i loro nomi (impronunciabili per noi occidentali) e la loro età.
Questa è una classe elementare ma il progetto del Cesvi, finanziato da un’azienda di Bergamo (la Brembo Brake) e inaugurato l’anno scorso, comprende anche spazi per i bimbi dell’asilo, un’area adibita a nursery per le giovani mamme (dai 16 ai 18 anni circa) che devono accudire i loro piccoli, e assistenza e aiuti alle famiglie. Le maestre mi raccontano che insegnano ai bambini non solo a leggere e a scrivere ma anche come prendersi cura della propria igiene, come lavarsi alla mattina e alle donne come far mangiare i propri figli utilizzando cibi sani e non necessariamente più costosi.
Poco più in là c’è un altro spazio dove ragazzini più grandi, di dodici e quattordici anni, sono concentrati sui computer. “Voglio diventare un ingegnere” mi dice il più spigliato di tutti, mentre la sua compagna con delle bellissime trecce nere lucenti fermate da fiocchi gialli timidamente sussurra: “vorrei essere un medico e far nascere i bambini“. Due delle professioni più richieste in questo paese che sta diventando sempre più una potenza economica ma la cui crescita, fin troppo rapida, non corrisponde ad un reale miglioramento di vita per tutti. Nelle campagne la maggior parte della gente è povera e analfabeta e in una città come Pune, che vanta il reddito procapite più alto dell’India e industrie all’avanguardia nel settore automobilistico e informatico, sono cresciuti i grattacieli ma non le infrastrutture per aiutare le fasce più deboli, né gli investimenti per la sostenibilità ambientale. Lo dimostrano spazzatura, inquinamento e traffico infernale per le strade del centro dove transitano serenamente mandrie di mucche insieme ad auto, tuk tuk e moto su cui viaggiano intere famiglie, tutte rigorosamente prive di casco. Le due anime di un paese affascinante e pieno di contraddizioni: da una parte progresso e sviluppo, dall’altro il record mondiale del più alto numero di decessi fra i bambini da zero a cinque anni. Come è possibile nel ventunesimo secolo mentre si progettano, magari proprio in India, aerei supersonici e automobili che si guideranno da sole? Come si può accettare che circa 12 milioni di bambini in India inizino a lavorare a 6 anni invece di andare a scuola? Io li ho visti nelle fabbriche di mattoni del Tamil Nadu dove il Cesvi sostiene due altre Case del sorriso, una per le bambine e una per i bambini. Ho portato i miei figli in quel viaggio, ormai sette anni fa, perché credo fermamente che dobbiamo educare le nuove generazioni ad affrontare il tema della grande ricchezza di pochi e della povertà di molti.
Ripenso a questi contrasti mentre, finita la visita, gli occhi neri dei bimbi mi seguono dalle finestre della casetta color fango che confina col lusso dei palazzi. House of Smile c’è scritto sulle loro magliette rosse. Sorrido anch’io. Non posso dimenticarli.
Testo apparso sul settimanale Grazia
Foto di Roger Lo Guarro