di Gabriele Corsi | tratto da ilfattoquotidiano.it | foto Cristina Francesconi
Sono nato libero.
In realtà dovrei dire sono nato. Anzi: sono nato vivo. E vi assicuro che da queste parti ha del miracoloso.
Scusatemi, non mi sono ancora presentato: mi chiamo… ma no, non importa come mi chiamo. Mettete voi un nome che vi piace.
La cosa importante è come e dove sono nato.
Sono nato a quasi centocinquanta chilometri da Harare, la capitale dello Zimbabwe.
Mia mamma è una delle tante donne africane che vedete nei documentari.
Vestita come ve l’aspettate. Con lo sguardo che vi aspettate.
No, non è così triste perché “ha fame”. Certo, grassa non è. Si nutre quasi esclusivamente di rifiuti. Quando va bene, un pugno di riso, regalatole da qualche Onlus europea.
Non ha quello sguardo “perché è povera”. Certo, ricca non è. Ha i vestiti che si porta addosso. Non ha scarpe. E provate a camminare per duecento chilometri al nono mese di gravidanza in mezzo alla foresta senza scarpe.
Perché, allora, è così triste mia mamma?
Perché sa di avere l’Aids.
Ma non teme per la sua vita. E’ soddisfatta di essere arrivata a 17 anni. Ha vissuto abbastanza e bene, dice sempre. E lo pensa davvero.
No, è triste perché sa che io nascerò malato. Dello stesso virus. Lo sa perché ha visto morire decine, centinaia, migliaia di figli di altre donne con lo stessa malattia.
A lei l’Aids l’ha attaccato mio padre. Mio padre pensa che mettere il preservativo svilisca la sua virilità. Peccato che così abbia infettato mia mamma.
Comunque. Mia mamma è arrivata fin qui, in quest’ospedale che si chiama St. Albert, perché le hanno detto che fanno nascere i bambini sani, anche se la madre è malata.
Adesso, se vi va, seguitemi. Venite con me in questa stanza. Vedete, c’è una dottoressa minuta dal sorriso dolce. Credo sia una suora. Spiega a mia madre come funziona la cura. Si danno delle medicine alle donne incinte e il figlio nasce sano.
“E’ un miracolo?” chiede mia madre.
“Se far nascere sani dei bambini condannati a morte in mezzo all’Africa non lo consideri un miracolo, non so cosa lo sia”.
Purtroppo io sono già nato.
Mia mamma doveva arrivare prima.
E anche in quel caso non so se sarei potuto nascere sano.
“Perché” spiega la dottoressa minuta “non abbiamo abbastanza medicine per tutti. E allora dobbiamo decidere a chi darle e a chi no”.
Le vengono gli occhi lucidi e mia mamma quasi si sente in colpa.
Non vorrebbe essere al posto della dottoressa che deve decidere chi salvare e chi condannare a morte.
Io ho pochi giorni di vita e anche se fossi grande non credo che da queste parte saprei cos’è Twitter.
Però mi dicono che un’associazione italiana laica, il Cesvi, ha lanciato una campagna per la raccolta fondi per continuare a far nascere dei bambini sani. Si chiama #sononatolibero.
So che la situazione in Italia è davvero difficile. Ma se tra voi c’è qualcuno che può donare 2 euro inviando un sms al 45503 (o 5 e 10 euro da telefonia fissa), sappia che sarà artefice di un miracolo.
Tutti dovrebbero nascere liberi.
Io sono già schiavo di un male che non si può curare.
Sono nato libero.
Non trovate siano tre parole meravigliose?
E non trovate che, messe insieme, siano ancor più significative?
Sono.
Nato.
Libero.