Questa testimonianza è tratta dal libro “Ilenia è un calabrone” e rientra nell’ambito di #LiberiTutti, la campagna che vede Cesvi impegnato in Italia per prevenire e contrastare i fenomeni di trascuratezza e maltrattamento ai danni di bambini e adolescenti. Un impegno che ci ha portato alla creazione della rete “IoConto”, attiva sul territorio nazionale in collaborazione con importanti partner locali. Il testo è stato scritto da un educatore di comunità che opera per una delle cooperative sociali sostenute da Cesvi a Bergamo a favore di bambini e ragazzi con disagi familiari. Per maggiori info sul progetto: clicca qui.
È sempre stato così, da quando lo conosco. Per sempre intendo una volta al mese, di giovedì.
Arriviamo con la macchina nel piazzale della stazione che la mamma non c’è ancora. Nemmeno quando arriviamo con un po’ di ritardo la troviamo ad aspettarci.
Perché la mamma ha sempre un qualcosa che la fa arrivare dopo: un problema tecnico sulla linea ferroviaria, una coincidenza mancata, la bici sgonfia che ha reso faticoso arrivare in stazione, il gatto che non rientrava, un oggetto da restituire a un vicino.
Così noi stiamo lì, aspettiamo dentro la nostra auto rossa fiammante, estate e inverno, pioggia o sole, con gli occhi poggiati sulle tante persone di vari colori che popolano il piazzale, e girovagano, in qua e in là, e sembra non abbiamo nulla da fare.
Parliamo poco, noi, in quei minuti, perché è difficile aspettare così intensamente qualcosa e parlare allo stesso tempo.
Quando finalmente vediamo spuntare la mamma, anzi la sua testa, i suoi capelli biondi scarruffati, li vediamo sbucare dalle scale che salgono dai sotterranei della stazione – perché è lì e soltanto lì che Lorenzo ha tenuto fisso lo sguardo in questi minuti di attesa – a quel punto allora comincia il rituale.
Scendiamo dall’auto e Lorenzo si avvicina, sembra voglia prendermi la mano e invece mi afferra il polso e lo stringe. Mi trascina per qualche metro e con la mano libera comincia a darmi pugni sul braccio che sta tenendo ben saldo dal polso. Pugni che non fanno male, perché lui ha 10 anni e non è certo la sua intenzione, ma pugni, sberlette, a colpire il mio avanbraccio, il gomito e sul tricipite fino alla spalla, alzandosi anche in punta di piedi per malmenare meglio. Venti, ventidue, ventiquattro pugni, quanti ce ne stanno a coprire la distanza tra noi e la scala in cima alla quale la mamma ci aspetta, sorridente.
Durante l’attraversamento Lorenzo sbircia la mamma di sottecchi, a tratti, ma guarda più me, il mio braccio, stringe il polso, stringe e randella. Poi, quando entriamo nel raggio di azione della mamma, tutto finisce.
Lei lo branca, se ne impossessa, lo avvolge, lo arrotola e lo strapazza. Basta pugni, basta strette e sguardi storti. Lorenzo viene infagottato, risucchiato e scompare in un abbraccio che sembra un flutto di mare, lui è un piccolo mollusco che si abbandona alla corrente. Le risate del solletico e dei pizzicotti esplodono come spruzzi di schiuma.
Lorenzo è un bimbo che parla poco. Quei pugni, quelli del giovedì-una-volta-al-mese, non me li può rivelare. Spesso mi chiedo da dove vengano, cosa vogliano comunicare.
Mi stai antipatico perché mi hai portato via la mamma?
Voglio che la mamma veda che non sto bene con te, deve sapere che sto bene solo con lei?
Perché mi hai riportato qui se sai che poi farò tanta fatica a staccarmi?
Oppure: perché non te ne vai e ci lasci soli?
Perché sono ogni volta così agitato?
Perché alla mia età devo sopportare fatiche così grosse?
Chissà. Fatto sta che gli altri giovedì noi due giochiamo, disegniamo e andiamo a vedere i musei. Raccogliamo anche pietre che per noi sono minerali. E parliamo.
Ma quando arriva quel giovedì, le parole vanno a fondo come i nostri sassi, non servono più. Arrivano i pugni e con loro quel silenzio che lui, sì, parla davvero.
Foto di copertina: Roger Lo Guarro