Cesvi, attraverso il Centro di Sviluppo Comunitario di Tripoli, aiuta bambini e minorenni migranti a trovare ospitalità in una casa sicura, riprendere gli studi e ritrovare il benessere psicofisico perso durante il tormentato percorso migratorio.
«Non mi fido degli adulti» sono le prime parole pronunciate da Khalil agli operatori del Cesvi a Tripoli. La sua storia non lascia dubbi sulle ragioni di questa diffidenza.
Khalil nasce in Somalia, Paese che lascia all’età di quattordici anni per partire alla volta dell’Europa con la speranza di riuscire a guadagnare a sufficienza per sfamare la propria madre e i tre fratellini; il padre è morto da diversi anni, lasciando la famiglia senza fonti di sostentamento.
Si imbarca per lo Yemen, dove per un mese elemosina i soldi necessari a pagarsi il viaggio fino al Sudan, da cui raggiunge Cufra, oasi libica che attualmente costituisce uno dei più importanti punti di snodo del percorso migratorio verso l’Europa. Qui viene catturato da uomini armati che lo imprigionano e lo torturano per mesi: il bambino non ha soldi con cui pagare la sua liberazione. Finalmente riesce a scappare, ma solo per cadere vittima di altre milizie nel piccolo centro abitato che riesce a raggiungere dopo aver lasciato Cufra.
Sotto shock, con gli occhi bassi e lo sguardo vuoto, arriva a Tripoli nel febbraio del 2019. Non parla arabo e non ha legami con la comunità di appartenenza: è appena un adolescente, ma ha già perso la fiducia negli esseri umani.
Maryam, assistente sociale del Centro di Sviluppo Comunitario, ha dovuto insistere parecchio per riuscire a creare un legame con lui: «Ci sono volute diverse settimane prima che cominciasse ad aprirsi e raccontarmi la sua storia. Ma è normale, mi è capitato tantissime altre volte: i bambini arrivano in Libia in condizioni disperate».
Raccolte le informazioni essenziali, il caso di Khalil è stato discusso da assistenti sociali, psicologi ed esperti di supporto psicosociale del Cesvi, con l’obiettivo di definire un piano di riabilitazione, supporto e rafforzamento della resilienza.
Per evitare che venisse catturato e rinchiuso in un centro di detenzione, gli operatori gli hanno innanzitutto trovato una sistemazione presso una famiglia di rifugiati sudanesi; contemporaneamente l’hanno invitato a partecipare alle attività del centro, in particolare ai corsi di lingua e agli incontri psicosociali .
«Nella mia nuova casa mi sento benvoluto e al sicuro; do il mio contributo aiutando a preparare da mangiare per la famiglia e se non ho nulla da fare mi dedico alla lettura, il mio passatempo preferito” racconta il bambino. “Mi è sempre piaciuto andare a scuola, è stato triste per me doverci rinunciare. Ma al Centro di Cesvi posso frequentare corsi di inglese e arabo utili per quando dovrò trovare un lavoro con cui mantenere la mia famiglia».
Dopo quasi tre mesi di supporto da parte degli operatori, Khalil si sente meglio. Il centro di Cesvi è diventato il suo rifugio sicuro, dove può stringere amicizia con altri adolescenti. Ha un posto sicuro dove dormire e ha una buona relazione con la famiglia che lo ospita. Soprattutto, sa che Maryam e tutti gli operatori del Centro sono sempre disponibili per ascoltarlo e farlo stare bene.
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