Mohamed, profugo controcorrente rientrato nella sua Somalia

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Mentre tutti scappano, Mohamed ha risalito la corrente. Oggi, a 33 anni, è project manager di Cesvi a Mogadiscio, nella sua Somalia, e ha una storia di “profugo rientrato” che bisogna conoscere, per capire davvero l’esperienza di quanti, oggi, lasciano il proprio Paese con la costante voglia di invertire la rotta e (magari) cambiare tutto.

Di seguito proponiamo un estratto dell’intervista realizzata da Benedetta Verrini per il sito www.iodonna.it. L’intervista si può leggere in versione integrale cliccando qui.

Com’era la situazione in Somalia quando l’ha lasciata?

La guerra civile in Somalia è scoppiata nel 1991, quando avevo sei anni. Il Paese era nel caos. Mio padre era vicino a uno dei clan ribelli e iniziò a temere per la nostra vita. La situazione è andata peggiorando in brevissimo tempo: gli scontri tra i clan stavano facendo molte vittime in città e le case venivano saccheggiate. Così, decidemmo di fuggire. Io, i miei tre fratelli e i miei genitori, abbiamo viaggiato a piedi per 4 lunghi giorni fino ad Afmadow, una città situata nel sud della Somalia, al confine con il Kenya. Poi siamo stati trasferiti a Dadaab, la località che ospita ancora il campo rifugiati più grande al mondo.

Il “famoso” campo di Dadaab: era stato costruito nel 1991 per ospitare temporaneamente le famiglie che abbandonavano la Somalia a causa della guerra civile. Oggi accoglie circa 350 mila persone. Come è stato vivere lì?

Era una realtà molto difficile, specialmente per un bambino. Eravamo in cinque, l’acqua pulita era una rarità e il nostro unico riparo era costituito da teli di plastica che ci proteggevano dal sole a picco durante il giorno e ci riparavano dal freddo della notte. Soprattutto nei primi tempi, bisognava ridursi il cibo. Fortunatamente, grazie all’istruzione di base che aveva ricevuto, mia madre era riuscita a ottenere un piccolo impiego. Mio padre non ne poteva più della vita nel campo e decise di tornare in Somalia per accertarsi che la nostra casa ci fosse ancora. Non è mai più tornato.

Cosa l’ha convinta a “invertire la rotta”?

Nel campo di Dadaab c’erano molti giovani, in parte anche istruiti, ma senza alcuna entrata e senza un’occupazione. Eravamo praticamente rinchiusi nel campo, non c’era la possibilità di muoversi o di uscire, era una prigione a cielo aperto. Decisi di abbandonare il campo. Avevo potuto seguire un corso di scienze sociali e sentivo il bisogno di tornare in Somalia.

Com’è la situazione oggi in Somalia?

Il gruppo di estremisti di al-Shabab rappresenta una minaccia continua alla stabilità. La Somalia resta uno dei Paesi con il minor tasso di crescita economica e sviluppo: oltre il 70% della popolazione vive sotto la soglia di povertà e il 67% dei giovani non ha lavoro, è presente ancora un forte gap di genere. C’è bisogno di servizi di base, di strumenti che mettano al riparo le persone dai disastri, c’è bisogno di costruire, appunto, resilienza.

Come vede l’attuale situazione dei migranti?

I migranti versano in una condizione di estremo bisogno e sofferenza. Credo, però, che il flusso migratorio possa essere mitigato. La Somalia è uno dei Paesi dal quale si origina maggiormente l’esodo. Tanto il governo somalo quanto gli aiuti internazionali dovrebbero concentrarsi sulle politiche di sviluppo al fine di creare scuole, ospedali, servizi ma soprattutto: lavoro.

Cosa fa Cesvi in Somalia?

Realizza progetti di resilienza ad ampio spettro per le comunità locali, insieme ad attività di risposta alle emergenze, in particolare alle calamità naturali come la siccità, che in questi ultimi mesi ha stretto in una morsa la regione di Mudug e provocato una gravissima carestia. Circa 11mila persone ricevono cure e assistenza sanitaria e interventi nutritivi da 10 cliniche mobili e in 4 centri sanitari stabili, corredati da reparti degenze. Gli interventi sanitari includono l’immunizzazione dei bambini, la salute materna e riproduttiva, il controllo delle malattie trasmissibili, il trattamento di diarrea, morbillo e pertosse. Operiamo attraverso il coinvolgimento attivo delle comunità, delle autorità e delle istituzioni locali. Siamo impegnati anche in progetti nel settore “acqua e igiene ambientale”, strettamente connesso alla sicurezza alimentare.