Amel Markus, 26 anni, coordina le attività del Centro Sociale di Cesvi dove si svolgono attività di educazione non formale, supporto psicosociale, terapie di gruppo ed eventi che permettono ai membri della comunità migrante e libica di socializzare e integrarsi.
Amel, come è nato il tuo interesse per il lavoro umanitario?
Mi sono avvicinata al settore umanitario dopo essermi laureata in Ingegneria; ma quando la situazione in Libia si è capovolta in seguito alla rivoluzione del 2011, ho iniziato a interrogarmi su come avrei potuto aiutare il mio paese in questo nuovo contesto di difficoltà. Il primo passo è stato iniziare a insegnare inglese ai bambini. Nel frattempo cercavo lavoro nel settore umanitario; nel 2017 sono stata assunta da Cesvi.
Di cosa ti occupavi all’inizio della tua collaborazione con la nostra organizzazione?
Inizialmente lavoravo per il Centro di Sviluppo Comunitario e mi occupavo di individuare all’interno della comunità i casi più vulnerabili, quelli che non riuscivano nemmeno a raggiungere i nostri centri per cercare aiuto; a loro spiegavo quale tipo di supporto avrebbero potuto ricevere da Cesvi. In quel periodo centinaia di famiglie stavano scappando da Sabratha, una piccola città nella Libia nord-occidentale, a causa degli scontri fra le diverse milizie. A Tripoli giungevano madri sole con figli al seguito, minori senza genitori, persone disperate che avevano dovuto lasciare tutto a causa del conflitto; io mi occupavo di trovare volontari e famiglie disponibili ad ospitarle.
Quando nell’aprile del 2018 Cesvi decise di potenziare le attività del Centro Sociale a Tripoli, mi chiesero di coordinare le attività del centro: lezioni di arabo, inglese, IT, matematica; incontri di supporto psicosociale per bambini; terapie di gruppo; incontri per adulti sulla genitorialità positiva; iniziative di sensibilizzazione su tematiche di interesse comune come ad esempio igiene personale, diabete, cancro al seno; e infine, eventi che permettano a migranti e comunità ospitante di conoscersi e socializzare.
Le attività hanno risentito del conflitto scoppiato poco più di un mese fa tra l’Esercito Nazionale Libico del maresciallo Khalifa Haftar e il Governo di accordo nazionale di Fayez al Serraj?
Quando sono iniziati gli scontri, abbiamo dovuto chiudere il Centro Sociale per motivi di sicurezza: non volevamo che i beneficiari rischiassero la vita negli spostamenti dalla propria abitazione al Centro. Abbiamo quindi iniziato ad operare nei Centri Collettivi gestiti dal governo o dalla Luna Rossa Libica, dove hanno trovato riparo moltissime famiglie che hanno dovuto abbandonare la propria casa. Abbiamo iniziato a lavorare in sei centri, ma recentemente abbiamo dovuto terminare le attività in uno di questi perché si trova troppo vicino agli scontri. Al momento stiamo svolgendo attività di supporto psicosociale per i bambini, che possono così avere un momento di sollievo dalla situazione di stress che stanno vivendo.
Perché concentrarsi su attività di supporto sociale in un momento tanto delicato come quello di un conflitto civile?
Le famiglie che vivono nei centri collettivi sono confinate a una stanza, non hanno niente da fare se non angosciarsi sull’esito del conflitto; i bambini non hanno modo di sfogare la propria energia o di esprimere le proprie emozioni. Attraverso il gioco e il disegno, noi forniamo loro un momento di svago e di rielaborazione del trauma per aiutarli ad affrontare meglio la situazione drammatica che stanno vivendo. Allo stesso tempo, prendendoci carico dei figli, alleviamo temporaneamente anche le pressioni vissute dai genitori, che possono così prendersi un attimo per rielaborare la situazione di trauma che stanno vivendo.
Parallelamente, stiamo anche gettando le basi per avviare attività di educazione non formale che permettano agli studenti di continuare a studiare e prepararsi per gli esami che, conflitto permettendo, dovrebbero tenersi a giugno, a conclusione del Ramadan.
Tu vivi a Tripoli: cosa vuol dire vivere in una città sotto assedio?
Gli scontri avvengono nella periferia, quindi chi come me vive nel centro della città ha quasi un’impressione di normalità: i negozi e i bar sono aperti, le attività quotidiane vanno avanti. Ma in sottofondo giungono i rumori della guerra: il fischio dei missili e le esplosioni delle bombe che ti ricordano che da un momento all’altro, tutto potrebbe finire. È particolarmente dura per i bambini: quando sente le esplosioni mia nipote si sveglia piangendo; per tranquillizzarla le racconto che sono fuochi d’artificio. Non mi resta che fare del mio meglio: l’esito del conflitto è fuori dalla mia portata, l’unica cosa che posso fare è portare avanti il mio lavoro e cercare di aiutare quelli che più soffrono a causa della situazione.
Permetti ad Amel di portare il suo aiuto a tutti coloro che soffrono: dona ora per far tornare a sorridere i bambini vittime del conflitto!