Testo e foto di Laura Salvinelli
tratto da Elle gennaio 2014
La storia di Malala, enfant prodige dell’attivismo che ha sfidato i talebani battendosi per il diritto allo studio e che è sopravvissuta alle pallottole che le hanno sparato in faccia da poca distanza su un minuscolo pulmino affollato di scolare, ha commosso tutto il mondo. Ora la coraggiosa ragazza vive al sicuro a Birmingham, e da lì continua il suo lavoro. Grazie a lei finalmente l’attenzione internazionale si è accorta che il Pakistan, insieme all’Afghanistan, la Repubblica Democratica del Congo e l’India, è fra i Paesi al mondo più pericolosi per le donne.
Sono in Pakistan su incarico dell’Organizzazione Non Governativa italiana Cesvi, che fa parte del network Alliance2015 operante a favore delle vittime delle disastrose inondazioni del 2010-11 che hanno fatto 20 milioni di sfollati. Si tratta di uno dei più grandi programmi umanitari mai finanziati dalla Commissione Europea (ECHO) a un unico consorzio di ONG, che mira ad aiutare quasi 2 milioni di beneficiari.
Nella provincia del Sindh per esempio, Cesvi si occupa di fornire gli shelter (casette in cui vivere) e quanto serve per cucinare, di costruire latrine, istallare sorgenti d’acqua e formare gli sfollati su come affrontare futuri disastri nonché sull’importanza dell’igiene quotidiana. Il lavoro di Cesvi, focalizzato sulle donne, mi permette di incontrare pakistane dal Sindh (sul confine con l’India) al Khyber Pakhtunkhwa (su quello con l’Afghanistan) oltre che nella capitale Islamabad, e di continuare il mio progetto sulle donne coraggiose dei Paesi che più odiano le donne.
Tra campagne di sensibilizzazione e training sull’igiene del progetto sostenuto da ECHO, mi faccio raccontare la storia di Zeenat Himayat, 34 anni, operatrice locale di Cesvi. 4 anni fa lavoravo per un’organizzazione umanitaria internazionale quando un gruppo di talebani o banditi ha fatto irruzione nel nostro ufficio. I malviventi hanno radunato i 9 colleghi presenti, hanno tagliato i fili del telefono, si sono fatti consegnare i cellulari, le borse e le chiavi della cassaforte. Io, che ero nella mia stanza, con un balzo ho fatto in tempo a rintanarmi nel bagno, senza chiudere la porta a chiave, perché ho pensato che se avessero trovato chiuso a chiave avrebbero fatto fuoco per aprire. Da lì ho ascoltato tutto, trattenendo il fiato. Dopo aver accusato le mie colleghe di lavorare per un’organizzazione straniera, i terroristi hanno massacrato uomini e donne con i kalashnikov e con le granate, che hanno lanciato sulle bombole del gas dei fornelletti con cui cucinavamo. La stanza intera è crollata per le esplosioni, ma il bagno in cui ero è rimasto miracolosamente intatto. Quando se ne sono andati, sono uscita e ho trovato tutti i miei compagni di lavoro a terra, fra sangue e macerie. Il primo cadavere era quello di un autista, con un foro sulla fronte. Mi sono inginocchiata e mi sono messa a pulire i visi dei morti. Così ho scoperto che il secondo corpo, senza una mano, era della mia compagna di stanza, una giovane amica che era al suo primo lavoro. 2 erano ancora vivi e sono sopravvissuti, sebbene feriti gravemente.
Dopo 8 mesi a casa Zeenat ha ricominciato coraggiosamente a lavorare per mantenere 5 figli, che ora sono diventati 7, il marito, militare in pensione che non ha mai più trovato lavoro, e i suoceri.
La donna, nata da contadini poveri, lavorando per le organizzazioni internazionali, ora per Cesvi, ha cambiato il suo destino e quello dei suoi figli.
Quando mi dice: Sono felice di sapere i miei figli fieri di me penso che anche lei lavori nel nome dell’onore delle donne pakistane.
Foto di copertina: Ritratto di Zeenat Himayat