Tratto da Il Corriere della Sera, 25 luglio 2025
Intervista di Andrea Nicastro a Stefano Piziali, Direttore Generale CESVI
Stefano Piziali, direttore generale di CESVI, una delle più grandi ong italiane, è stato in Afghanistan, Somalia, Eritrea, negli ultimi anni anche nella Ucraina sotto le bombe, eppure anche lui ripete il ritornello di tutti: «non ho mai visto niente del genere».
«Parlo ogni giorno con il nostro personale a Gaza, sento i palestinesi e gli internazionali. Ogni volta è peggio. Diego Regosa che è lì da qualche settimana, resiste, ma gli altri sono già troppo deboli per lavorare a tempo pieno. Semplicemente non mangiano abbastanza. Mancano calorie».
Avete ancora uffici?
«Siamo a Deir el-Balah come la maggior parte delle organizzazioni umanitarie. Quella che era stata dichiarata da Israele zona umanitaria e quindi relativamente risparmiata fin’ora. Dall’inizio della settimana, purtroppo, alcune aree della città sono sotto attacco, la nostra per fortuna no».
Come cercate di aiutare?
«A Gaza ci occupiamo soprattutto di acqua. La potabilizziamo, la distribuiamo con cisterne trainate da autocarri quando abbiamo carburante o asini quando manca. Un lavoro umile, ma essenziale. Proprio oggi abbiamo installato uno speciale potabilizzatore che serve anche alle dialisi nell’ultimo ospedale pediatrico della Striscia. Depura abbastanza acqua per tutta la struttura che ha 150 letti e 200 sanitari».
Però?
«Però fatichiamo ormai a trovare la materia prima. Non abbiamo pozzi o desalinizzatori, dobbiamo comprare l’acqua e nessuno ce la vende più. Mancano i pezzi di ricambio per le pompe. Con il sistema fognario distrutto e così tanti accampamenti informali, la qualità dell’acqua di falda è drasticamente peggiorata».
Avete da mangiare?
«Come tutti, sempre meno. La macchina degli aiuti è andata in crisi da quando una fondazione privata – la Gaza Humanitarian Foundation, ndr – ha voluto sostituire l’organizzazione delle Nazioni Unite. Un caso unico perché una parte belligerante pretende di dare assistenza all’altra parte. Così facendo viene meno il principio della neutralità e dell’indipendenza».
Perché la Gaza Humanitarian Foundation non funziona?
«Per tre motivi fondamentali. La modalità di distribuzione è stata militarizzata: contano di più le armi che gli aiuti. Secondo, le forniture sono stabilite dall’alto e non in base ai bisogni. Mi ricordo in Afghanistan quando cadevano dal cielo casse appese a paracaduti gialli. I militari dicevano di aver portato cibo, ma nessuno sapeva a chi andassero quei beni. Non si fa così. Bisogna capire le necessità e coordinare l’intervento. Se io do acqua, qualcun altro porta farina, un altro gas e tutti controlliamo che arrivino a chi ne ha bisogno, allora funziona. Solo così le famiglie, non le gang, fanno il pane. Terzo, con l’entrata in servizio della fondazione privata si sono ristretti i valichi di accesso. E adesso non c’è più nulla. Il risultato è sotto gli occhi».
Eppure, qualcosa a Gaza si vende ancora. Come è possibile?
«In tutti i Paesi in guerra sopravvive un’economia informale. A Gaza ci sono commercianti capaci, con contatti ovunque, chiaro che riescono a procurarsi qualcosa».
Israele accusa l’Onu di aver sovvenzionato per anni il mito del rifugiato che aspetta di tornare nei territori occupati da Israele nel 1948 e nel 1967. Il che significherebbe la distruzione dello Stato ebraico. Come risponde?
«Non è una risposta che compete al mio livello. Noi vediamo una popolazione inerme, che muore di fame e cerchiamo di aiutare. Lo facciamo, tentiamo di farlo, perché crediamo che il rispetto dei civili sia alla base della convivenza da ben prima dell’Onu. Questa è la civiltà in cui crediamo».
Israele dice anche che dentro la Striscia ci sono tonnellate di cibo e che voi, ong e Nazioni Unite, non sapete distribuire.
«Anche in questo caso, non entro in polemica. Credo solo che, come potenza occupante, Israele ha il dovere di creare le condizioni per la sopravvivenza dei civili».