Mahmoud H., trentacinquenne di origini sudanesi, ci racconta il lavoro svolto nel Centro di Sviluppo Comunitario di Cesvi a Tripoli a supporto di rifugiati e richiedenti asilo provenienti da Medio Oriente e Paesi al di sotto del Sahara.
“Lavoro con Cesvi da sette anni, da quando a Bengasi mi occupavo di valutare le vulnerabilità dei beneficiari e li indirizzavo verso i giusti servizi di supporto. È stato un periodo intenso perché lavoravo sia nel Centro di Sviluppo Comunitario sia nei campi rifugiati. Con alcuni degli stessi colleghi di allora lavoro anche oggi a Tripoli: siamo diventati praticamente una seconda famiglia.
Quando mi sono trasferito nella capitale, ho iniziato ad assumere sempre più responsabilità fino a che sono diventato Coordinatore del Centro di Sviluppo Comunitario, dove mi occupo di gestire il personale che fornisce assistenza psicosociale e abitativa alle persone più vulnerabili.
Lavoriamo in un contesto molto dinamico, il telefono non smette mai di suonare; i giorni di relativa calma sono bilanciati da momenti in cui centinaia di rifugiati affollano la sala d’ingresso e gli altri due piani del Centro, dove International Medical Corps (IMC) fornisce assistenza sanitaria e l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) si occupa di soluzioni a lungo termine come rimpatrio volontario, integrazione locale o insediamento in un Paese terzo.
I casi più difficili sono quelli dei minori non accompagnati o delle innumerevoli persone a cui è stata fatta violenza. Hanno bisogno di essere ascoltati e aiutati, e di avere un tetto sicuro sopra la testa. Per trovarglielo dobbiamo fare decine e decine di chiamate; essenziale è avere dei contatti forti con la comunità rifugiata di Tripoli. Il punto di forza di Cesvi è che negli anni è riuscito a creare una rete solida che si basa sulla fiducia. E la fiducia è essenziale, soprattutto ora che le comunità sono spaventate dal conflitto in corso.
Come coordinatore, il mio compito non è solo quello di assicurarmi che le attività vengano svolte; la sfida più grossa è mantenere il team unito e motivato. Il livello di bisogno è infinito: è un’emergenza complessa, ci sono tante dinamiche di cui tenere conto, gli sfollati sono innumerevoli. Molte persone vengono rapite per strada e rinchiuse nei centri di detenzione. Qualcuno riesce a uscirne grazie al supporto di UNHCR, ma altri stanno lì a lungo senza alcuna prospettiva futura.
Ogni giorno abbiamo davanti delle persone che non hanno nulla, che hanno sofferto enormemente e che chiedono il nostro aiuto: bambini e bambine, anziani soli, donne a cui è stata fatta violenza. Come operatori umanitari non possiamo accettare di non poter fare nulla; quando qualcuno nel mio team si sente sfiduciato e impotente, io rispondo con un sorriso e lo aiuto a trovare una soluzione alternativa. Non sempre è facile, ma insieme siamo sicuri di poter ottenere il miglior risultato possibile”.
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